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ISRAELE: DIECI BUGIE PER DIECI GIORNI #6

ISRAELE: DIECI BUGIE PER DIECI GIORNI #6

Nicoletta Tiliacos

Dopo il 7 ottobre 2023, di fronte all’ondata di antisemitismo che percorre le società occidentali e contagia le giovani generazioni, è sempre più necessario smontare le menzogne sullo Stato ebraico, tese a negarne lo stesso diritto all’esistenza. Nel pamphlet intitolato “Le dieci bugie su Israele”, la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein analizza i più deleteri luoghi comuni dell’odio antiebraico e antisraeliano, confutandoli uno per uno e smascherando le manipolazioni della realtà su cui si fondano. 
Setteottobre ringrazia l’autrice, che ha accettato di mettere a disposizione del nostro sito questo suo prezioso lavoro, e la Federazione delle Associazioni Italia-Israele, che nell’aprile 2024 ne ha pubblicato e diffuso gratuitamente la versione cartacea.

È possibile scaricare gratuitamente il libro di Fiamma Nirenstein nella versione completa sul sito della Federazione delle Associazioni Italia Israele.

Bugia n. 6: I palestinesi come vittime perenni

Fiamma Nirenstein

La vittimizzazione dei palestinesi è una forma di grande corruzione morale: in base alla menzogna che siano stati spodestati a forza dal loro territorio e siano stati oppressi da persecutori israeliani, si è visto dopo il 7 ottobre 2023 come i loro sostenitori siano giunti a giustificare e ad appoggiare i più spaventosi atti di terrorismo. In particolare, è inaccettabile che l’ONU, di nuovo, affermi l’utilità e quindi la necessità di seguitare a sostenere l’UNRWA, ovvero l’agenzia che si occupa dei profughi palestinesi, dopo che sedici dei suoi membri sono stati scoperti nelle fila di chi ha commesso le atrocità nei kibbutz di Israele e che le prove della collusione e della complicità di una serie di suoi membri con la politica terroristica di Hamas continuano a emergere. Ma ben oltre alla questione dei terroristi, il tema dell’UNRWA è proprio quello che dimostra il fraintendimento su cui si basa la vittimizzazione dei palestinesi. Si tratta di una potentissima, superfinanziata organizzazione dell’ONU che si occupa di cinque milioni di persone definite “profughi” secondo parametri che differiscono da quelli applicati a qualsiasi altro profugo nel mondo. Tutti i profughi del mondo, infatti, fuorché i palestinesi, vengono sostenuti dall’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR) nella prospettiva di una risistemazione successiva al loro spostamento geografico, prendendosi cura del loro benessere, del lavoro, della lingua, dell’educazione. È così, per esempio per i profughi musulmani e induisti coinvolti nello scambio di popolazioni sul confine fra Pakistan e India, e così in mille altri casi, così come è avvenuto anche in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. L’UNRWA, che gode di un budget di un miliardo e mezzo di dollari (ora in parte decurtato dallo scandalo corrente, perché alcuni paesi hanno deciso di sospendere i finanziamenti dell’Agenzia) differisce totalmente dall’organizzazione generale per i profughi gestita dall’UNHCR perché per i palestinesi non c’è e non ci deve essere politica di assorbimento o di ricollocamento. Questo significa che generazione dopo generazione si resta “profughi” a vita, trasmettendo a figli, nipoti e pronipoti uno status che si perpetua (caso unico al mondo) e che soprattutto perpetua, grazie anche alla gestione dell’educazione delle giovani generazioni affidate all’UNRWA, lo scontro letale contro Israele. Il profugo, secondo l’UNRWA, «è una persona che viveva in Palestina fra il giugno 1946 e il 15 maggio del 1948 e che vi ha perso i mezzi di sussistenza in seguito al conflitto del 1948». Allora, come già si è detto, mentre Israele accettò la partizione dell’ONU, gli stati arabi attaccarono e invitarono gli arabi residenti ad allontanarsi, con la promessa di riportarli a casa. Si crearono così 700mila profughi, contro i circa 800mila profughi ebrei nei paesi arabi, che mai chiesero di perpetuare il loro status, ma si adattarono a vivere nei paesi che li hanno via via accolti (è accaduto ai profughi italiani dall’Istria, dopo la Seconda guerra mondiale: nessuno dei loro discendenti potrebbe oggi essere considerato “profugo”). Invece l’UNRWA ha il mandato politico di perpetuare lo stato di rifugiato, anche a chi nel frattempo ha il passaporto di un altro paese. Nel 1965 fu inclusa la terza generazione, e nel 1982 fu ulteriormente esteso. Perpetuare l’idea del “ritorno”, e soprattutto del ritorno armato delle “vittime”, rende impossibile la pace. Sappiamo che il canale Telegram che raccoglie più di tremila membri dell’UNRWA ha ospitato già durante il massacro del 7 ottobre foto e commenti entusiasti dei suoi insegnanti, alcuni dei quali hanno poi svolto il ruolo di carcerieri degli ostaggi a Gaza. Difficile stupirsene, visto che i muri delle scuole dell’UNRWA sono ornati da ritratti degli “shahid”, i “martiri” terroristi, e nel campo estivo di Askar, vicino a Nablus (solo uno fra i tanti esempi), quando i bambini parlano delle loro speranze dichiarano l’intenzione di divenire shahid uccidendo più ebrei possibile, e snocciolano a mente tutti i nomi dei terroristi morti nelle loro missioni. Questo insegna l’UNRWA.

Un altro capitolo poco conosciuto del tema della vittimizzazione ignora che, a partire dall’accordo ad interim del 1995 e da quello di Hebron del 1997, i palestinesi hanno acquisito una grande autonomia di gestione sul proprio presente e futuro, che si interrompe necessariamente per intervento militare quando la sicurezza dei cittadini israeliani (per esempio durante la Seconda Intifada, quando quotidiane incursioni terroristiche insanguinavano il territorio di Israele) è impossibile da controllare se non in presenza, con blocchi e verifiche spesso molto pericolose per le stesse guardie israeliane, che spesso cadono vittime di attacchi.

In base agli accordi sopra citati, l’esercito di Israele sgomberò tutte le maggiori città palestinesi lasciandone il pieno possesso ad Arafat. Si tratta dei cosiddetti “Territori A”, che dalla metà degli anni Novanta sono sotto completa giurisdizione palestinese. L’idea era proprio quella di mettere una fine agli attentati e al conflitto, tramite una restituzione territoriale che disegnasse un embrione di Stato. Si trattò di un grande e promettente primo passo, da perfezionare con accordi successivi: tutti ricordano la “Dichiarazione di principi”, nel 1993, con la famosa stretta di mano tra Rabin, Arafat e Clinton alla Casa Bianca. I nuovi accordi sarebbero rimasti in vigore per cinque anni al massimo, durante i quali sarebbe stato trattato un assetto definitivo e condiviso. Invece scoppiò il terrorismo suicida che ha falciato più di mille vittime civili israeliane. Dopo le prime elezioni generali palestinesi del 1996, l’amministrazione di Israele fu disciolta e il 98 per cento dei palestinesi da quel momento non vive sotto occupazione, perché si auto regola e auto governa con le proprie leggi, un proprio sistema scolastico e sanitario, la propria stampa e tv. È stato dato vita così a un sistema autocratico gestito da una classe dirigente totalmente corrotta, nonostante l’esistenza di un parlamento, la cui vita è tutta imperniata sul rifiuto di Israele. Il potere di Abu Mazen è incontrollato, le elezioni generali sono ormai un lontano ricordo, mai più riconvocate dal 1996 (nel 2006 si svolsero le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese, vinte da Hamas, poi più nulla), i bambini crescono nel culto della guerra contro gli ebrei (dicono proprio sempre “ebrei”, con odio e disprezzo, per indicare gli israeliani). Il sogno popolare non è la pace, che invece Israele canta e dipinge in tutte le occasioni, ma la cancellazione di Israele stesso, non il perfezionamento degli accordi ma il loro superamento all’insegna dell’annientamento dello Stato ebraico. È molto significativo che Abu Mazen non abbia mai condannato le atrocità del 7 ottobre, e che sul piano internazionale i suoi punti di riferimento, come quelli di Hamas, siano la Russia e l’Iran.


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