LE RADICI DOMESTICHE DEI GIOVANI ANTISEMITI
Paolo Macry
C’è un motivo di amarezza in più – di fronte al montare di un’opinione pubblica filoislamista e antiebraica – per chi è stato, nella verde età, un sessantottino e ha fatto poi, nei successivi quarant’anni, il mestiere dello storico. Lo dico a rischio di apparire ingenuo. Non pensavo di vivere in un contesto così povero di consapevolezza e intriso di ideologie. Non pensavo che le femministe italiane avrebbero ignorato le ragazze stuprate e i ragazzi impiccati dagli ayatollah. Non pensavo che i “collettivi” scendessero in piazza per bruciare non le bandiere di Hamas, ma le bandiere di Israele. Non pensavo che i giovani chiedessero giustizia non per gli ebrei smembrati e rapiti dai lupi sanguinari ma per i civili morti a Gaza durante il tentativo di catturare quei lupi.
Non so più di cosa stupirmi. Ho lungamente creduto nelle istanze umanitarie della sinistra occidentale e ho lungamente insegnato nelle università. E oggi mi chiedo che fine abbiano mai fatto quelle nobili idee e cosa io stesso abbia insegnato a quelli che nel frattempo sono diventati gli attuali docenti dei giovani antisemiti di Napoli, Pisa, Torino. Domande imbarazzanti, per noi cattivi maestri o semplicemente maestri falliti. Alle quali non credo si possa rispondere ricordando quanto successe ai tempi del Vietnam, quasi fosse un déjà vu.
Nella stagione del ’68 i giovani vivevano come prioritario il conflitto intergenerazionale, la ribellione alle famiglie e ai loro valori etici e politici, e molte follie di allora (la fede cieca nel maoismo omicida della rivoluzione culturale, per dirne una) credo si spiegassero all’interno di un simile cortocircuito. Quei “contestatori” erano gli antagonisti dei padri e degli insegnanti, le loro “fonti” erano esterne al teatro domestico: erano i partiti comunisti. Oggi temo che sia diverso e punterei il dito, piuttosto, proprio sui processi di socializzazione e acculturazione che avvengono nelle famiglie, nelle scuole, nelle prime reti relazionali. Oggi temo che i giovani costruiscano le loro parole d’ordine non più in odio al “sistema”, in antagonismo ai padri, ma al contrario assumendole proprio dai padri, dalle istituzioni formative, dai mezzi di informazione. Assumendole cioè dal “sistema”, dalla sua cultura diffusa, dai suoi interessi immateriali e materiali. Rivelando, in altri termini, un insidioso scambio di messaggi ideologici, di pregiudizi culturali, di povertà informativa tra padri e figli.
Il che significa che, per quanto minoritari, anche quegli slogan giovanili inneggianti alla distruzione di Israele hanno radici non episodiche nel mondo degli “adulti”. E sono quindi più rappresentativi di quanto non facciano supporre i piccoli numeri di un corteo studentesco. Durante il furibondo Sessantotto, le classi dirigenti, che capissero o meno quanto stava succedendo, furono comunque una sponda dialettica dei movimenti di contestazione e una diga contro le derive estremistiche (in Italia lo si vide chiaramente negli ‘anni di piombo’). Ma oggi? Oggi dubito che i padri abbiano qualcosa da insegnare ai figli e temo, al contrario, che siano loro – i nostri studenti diventati padri – i vettori dei pregiudizi ideologici e della mancanza di consapevolezza storica dei figli. Dopotutto, cosa mai possono sapere, quei figli, della catastrofe dell’antisemitismo europeo? Certo non saranno queste famiglie, né queste scuole, né questi talkshow a spiegargliela.