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NETFLIX E LA STORIA DI MARIA, UNA RAGAZZA EBREA

NETFLIX E LA STORIA DI MARIA, UNA RAGAZZA EBREA

Daniela Santus

 Il film natalizio di Netflix, “La storia di Maria”, ha suscitato polemiche soprattutto in Italia ancor prima del 6 dicembre, primo giorno utile per poterlo vedere sulla celebre piattaforma. Molti infatti avevano protestato per la scelta di due attori ebrei israeliani per i ruoli di Maria, Noa Cohen, e di Giuseppe, Ido Tako. Com’era possibile che non ci fossero attori arabi o palestinesi? Inutile anche soltanto tentare di ricordare, a questi scandalizzati, che la conquista araba ancora non era avvenuta, l’islam e il cristianesimo ancora non erano nati e la terra su cui avevano vissuto Maria, Giuseppe, Gesù, Giovanni, Zaccaria, Erode, Salomé non si chiamava Palestina. Riempire il contesto di popolazioni arabe avrebbe spostato in avanti le vicende di quasi sette secoli dopo la morte di Gesù: la prima sconfitta bizantina alle porte di Gaza, inflitta dai seguaci di Maometto (ormai deceduto), è datata infatti 634 d.C., ma è nel 637 che gli eserciti islamici ottengono la sottomissione di Gerusalemme. A questo proposito va ricordato, come ci suggerisce Lemire nel suo “Gerusalemme: storia di una città-mondo”, che un riesame delle fonti storiche ha dimostrato che, non soltanto il nome del califfo ‘Umar, tradizionalmente collegato alla conquista araba di Gerusalemme, non viene menzionato in nessun testo dell’epoca, ma addirittura pare che questi mai sia giunto in città, nemmeno per una visita, recandosi verosimilmente una sola volta – dopo la vittoria degli eserciti islamici sui Bizantini nella battaglia di Yarmuk – nei pressi di Tiberiade. Pertanto, dal momento che il film di D. J. Caruso è ambientato, come vuole la stessa tradizione cristiana, nel periodo di regno di Erode il Grande, un sovrano posto sul trono dagli occupanti Romani nel 37 a.C., non avrebbero potuto esserci abitanti arabi e ancor meno palestinesi in quelle zone. 

Di fatto le prime recensioni italiane, alquanto negative, si concentrano quasi esclusivamente sulla scelta di attori ebrei israeliani per i ruoli principali e sull’assenza di attori arabi. Come a dire, meglio un errore storico che due ebrei israeliani nel ruolo dei genitori “terreni” di Gesù. Eppure, senza voler apparire blasfemi, quella scelta dovrebbe essere vista come operata dall’Altissimo ben prima che da un regista. Coloro i quali credono, con devozione, che Gesù sia stato l’atteso Messia, l’atteso re dei Giudei, all’interno di quale altra famiglia pensano che avrebbe dovuto nascere, se non ebraica? La sola alternativa, all’epoca, sarebbe stata una famiglia pagana, ma difficilmente da una famiglia pagana sarebbe potuto nascere l’atteso Messia, discendente dalla casa di Davide. 

Tornando al film, va notato che nessuna protesta si è invece registrata per la scelta dell’agnostico Anthony Hopkins che interpreta magistralmente il ruolo di Erode, un re che non venne mai accettato dal popolo ebraico e dalle autorità religiose del tempo, anche per via degli atteggiamenti paranoici che lo portarono a commissionare l’uccisione della propria moglie, una principessa asmonea, e dei suoi due figli. 

Immaginiamo comunque lo stupore, per alcuni spettatori, alla vista di certi particolari apparentemente estranei alla tradizione cristiana, ma che invece rappresentano un tocco di originalità e studio: la sceneggiatura infatti non fa riferimento ai soli Vangeli canonici, ma rielabora la storia di Maria attraverso il protovangelo di Giacomo e il cosiddetto Vangelo dello pseudo Matteo, oltre che far proprie alcune suggestioni artistiche. Una tra le tante è quella della rappresentazione che il pittore Rosso Fiorentino, vissuto a metà del Sedicesimo secolo, fa del “Matrimonio della Vergine” in cui Giuseppe, sposo di Maria, è raffigurato come giovane e aitante. Allo stesso modo appare nel film di Netflix che, tuttavia, si ferma nel momento in cui Maria e Giuseppe presentano il bimbo al Tempio. 

Quale significato riveste la presentazione di Gesù al Tempio? In realtà si tratta semplicemente del rito ebraico del Pidyon haBen, il “riscatto del primogenito”, motivo per cui il Vangelo di Luca (2:22-23) specifica che questo era stabilito nella Legge di Mosè. I genitori “terreni” di Gesù, nonostante i tentativi di raffigurali, da parte di molti, come rifugiati palestinesi o semplici migranti, erano ebrei devoti che rispettavano la Legge e vivevano in Terra d’Israele. Questo secondo i Vangeli. Purtroppo le preghiere di Papa Francesco (nel 2014 e nel 2024), di fronte a presepi in cui Gesù viene adagiato su una kefiah o il ribaltamento del nome del luogo in cui Gesù e la sua famiglia vissero, lasciano trasparire una differente interpretazione. Basti pensare all’uso del termine Palestina: Papa Francesco, il cui pensiero è stato ben riassunto da Famiglia Cristiana già nel 2017, aveva infatti operato, nel contesto geografico, una sostituzione etimologica: “Maria e Giuseppe come i migranti di oggi in fuga dalla guerra, dalla miseria, da dittatori che li vogliono uccidere come il re Erode nella Palestina di duemila anni fa”. Peccato che la Palestina ai tempi di Erode non esistesse. 

Pensavamo, soprattutto con i Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, di esserci lasciati alle spalle la teologia della sostituzione – dottrina secondo cui la Chiesa cattolica è il nuovo Israele che nel cuore di Dio ha preso il posto del popolo ebraico, colpevole di non aver riconosciuto il Messia – invece la stessa è tornata a palesarsi e pian piano tutto ciò che nei Vangeli rimanda alla tradizione ebraica pare venir trascurato. Eppure la lettura dei testi è chiara: Gesù nei Vangeli viene chiamato “rabbi”, maestro, e come tale insegna attraverso parabole. Ma cos’era una parabola, se non una delle componenti più importanti del Midrash haggadico, l’interpretazione di carattere omiletico della Torah? Non c’è una sola idea di tipo religioso, ci suggerisce Ben Chorin nel suo “Fratello Gesù”, che i saggi del Talmud non abbiano cercato di chiarire attraverso parabole! Lo stesso faceva Gesù, maestro ebreo e Messia per i cristiani. 

D’altra parte che Gesù fosse nato, vissuto e morto come ebreo era ben chiaro agli estensori dei Vangeli. Essendo ebreo, l’ottavo giorno viene circonciso, come riporta sempre il Vangelo di Luca (2:21). Il film di Caruso, che si concentra sulla vita di Maria, ripercorre le tipiche narrazioni che la tradizione cristiana ha fatto proprie, come quella dei tre Re Magi provenienti dall’Oriente anche se, come ci ha ricordato Umberto Eco nel suo “Storia delle terre e dei luoghi leggendari”, soltanto nel Vangelo di Matteo viene riportato il racconto dei Magi (seppur senza specificare il loro numero), i quali sarebbero stati guidati nel loro viaggio da una stella. 

Ma chi era Maria, la donna che molti venerano come la madre del Cristo? “La storia di Maria” ripercorre la sua vita così come viene parzialmente presentata nel protovangelo di Giacomo, mostrandoci la giovane come “serva del Signore” al servizio nel Tempio sotto la guida della profetessa Anna. Nonostante ciò, sebbene diretto da un regista cattolico, vi sono alcuni aspetti in questo film che potrebbero lasciar perplessi i cattolici devoti. Come s’è detto, il regista ha scelto di discostarsi dalla tradizione che vorrebbe Giuseppe già anziano, vedovo e padre di altri figli, preferendo la rappresentazione di Giuseppe come giovane e vigoroso, impegnato in scontri corpo a corpo per difendere Maria, alla quale era legato da una romantica relazione. “Assicuratevi di dare voce a Giuseppe, non ne ha una nei Vangeli” aveva detto al regista Caruso il Vescovo O’Connel, secondo quanto riportato da angelusnews.com “Era coraggioso e valoroso, si oppose alla folla per proteggere Maria. Era un eroe”. E come eroe viene rappresentato. 

Un altro fattore che in parte allontana il film dalla tradizione cattolica è legato al momento della nascita di Gesù: Maria viene infatti ritratta stravolta dal dolore per le doglie del parto. Di fatto il dolore del parto è una conseguenza del peccato originale (Genesi 3:16) e il dogma cattolico dell’Immacolata Concezione afferma che Maria sia nata senza la macchia del peccato originale, pertanto la morte, come anche il dolore del parto, non dovrebbero toccare la sua esistenza. 

“Il mondo ha bisogno di vedere Maria e ha bisogno di vederla sotto una nuova luce” ha recentemente affermato il regista Caruso in un’intervista “il mio obiettivo era vedere se potevo presentare Maria in un modo bello, in un modo in cui un pubblico più giovane potesse vederla e relazionarsi con lei” e l’ha fatto restituendo un bel ritratto di ragazza, sposa, madre ebrea del suo tempo. 

Maria, più propriamente Miriam, come anche era chiamata la sorella di Mosè, era nata – secondo i Vangeli apocrifi e le tradizioni popolari – intorno al 20 a.C. a Nazareth, in Galilea. Dopo il matrimonio con Giuseppe e la nascita di Gesù, la tradizione cristiana ci narra che la famiglia dovette scappare in Egitto per sfuggire a Erode e che poté far ritorno in “Terra d’Israele” (Matteo 2: 20-21) soltanto dopo la morte dello stesso. Come già si è ricordato, a quei tempi la Terra d’Israele non era ancora chiamata Palestina e si suddivideva principalmente nelle regioni di Giudea, Samaria e Galilea. Nei Vangeli il termine Palestina non compare mai nonostante, è bene ricordare, il Vangelo più antico, quello di Marco, sia stato scritto tra il 70 e il 72 d.C., quindi 40 anni dopo la crocifissione; quello di Luca attorno all’85, quello di Matteo attorno al 90 e il più recente, quello di Giovanni, attorno al 110. La caduta di Gerusalemme aveva segnato la scomparsa dello Stato ebraico e gli evangelisti si rivolgevano a proseliti di origine ellenistica e a cittadini romani. Eppure mai una volta adoperano il termine Palestina, che non potevano conoscere in quanto non ancora in uso. 

Le cose cambieranno soltanto nel 135 d. C. quando l’Imperatore Adriano, dopo aver soffocato la rivolta ebraica di Bar Kochbà, decise di tentare la de-ebraicizzazione del territorio, spezzando qualsiasi legame tra il popolo ebraico e la sua terra. Fu così che il nome di Provincia Judaea venne sostituito con quello di Provincia di Syria Palaestina, toponimo che – con il passare del tempo – fu abbreviato in Palaestina, dal nome dei greci Filistei che avevano abitato parte della costa diversi secoli prima. Alla stessa Gerusalemme venne cambiato il nome: divenuta Aelia Capitolina, dove sorgeva il Tempio ebraico ne fu eretto uno dedicato a Giove. Tra l’altro lo stesso Imperatore, molto ben impressionato dal culto degli abitanti di Gaza (che non era ritenuta parte della Terra d’Israele) nei confronti delle divinità pagane come Zeus Marnas, Apollo, Ècate ed Elios, concesse loro il privilegio di vendere come schiavi i prigionieri ebrei catturati. Ma questa è un’altra storia e, forse, anche un altro film che ci porta direttamente ai giorni nostri. 

Molti recensori in questi giorni stanno scrivendo che non si riesce a vedere il messaggio che “La storia di Maria”, il film di D. J. Caruso, vuole trasmettere e addirittura si concentrano sul modo troppo attuale in cui sono vestiti l’arcangelo Gabriele e Lucifero, come se qualcuno possa ragionevolmente sapere se un arcangelo abbia o meno le ali e Lucifero la coda (non presenti nel film). A noi il messaggio sembra chiaro: la controversa sceneggiatura vuole presentare il legame profondo tra la tradizione della cristianità e le sue origini ebraiche, senza le quali il cristianesimo non avrebbe potuto nascere. Se si ammettono l’ebraicità di Maria e Giuseppe, quella di Gesù diviene scontata e la stessa Terra d’Israele rimane tale anche se, nel corso dei millenni, è stata chiamata con diversi toponimi più o meno “ufficiali”: Eretz Israel, Israele, regno di Giuda e regno d’Israele, Provincia Giudea, provincia di Siria Palestina, Palestina, Terra Santa, Stato d’Israele. Se Gesù, nel periodo della sua esistenza, avesse pensato di vivere in Palestina non avrebbe certamente detto di essere stato mandato “per le pecore sperdute del popolo d’Israele” (Matteo, 15:24), bensì per le pecore sperdute del popolo palestinese. Anche la storia e la geografia dei luoghi meritano rispetto. Significativo, nell’ambito della geografia della religione, è che il termine ebraico “makom” significa “luogo”, ma nella dizione Ha-makom indica “Dio”. Il termine makom denota infatti il segno esteriore di un arbitrario “ovunque”, ma al contempo definisce il sublime. In altre parole si tratta di un termine, come ci suggerisce Esher (2003), che sa coniugare il semplice insediamento in un luogo e il desiderio di essere uno con Dio: il che indica, a nostro parere, la centralità e l’importanza dei luoghi nell’esperienza ebraica. Tutte questioni che Gesù, in quanto maestro, non avrebbe potuto non conoscere, motivo per cui l’uso della toponomastica da parte di Gesù non dovrebbe essere trascurato. 

Quanto alla più recente polemica sul presepe di Betlemme, basti ricordare che il bambinello e la kefiah su cui era stato adagiato sono stati momentaneamente rimossi dal presepe in Vaticano (d’altra parte, secondo la tradizione cattolica, Gesù ancora non è nato): il 25 dicembre vedremo se la fede sarà riuscita a prevalere sulla politica. La nostra fiducia è tanta: quest’anno la prima sera di Hannukka – festa che ricorda la riconsacrazione del Tempio e la vittoria sui Seleucidi che lo avevano profanato – cadrà proprio la sera del 25 dicembre. Il miracolo potrebbe compiersi di nuovo.