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SETTEOTTOBRE: L’ESPRIT DU TEMPS – Carmelo Palma

SETTEOTTOBRE
L’ESPRIT DU TEMPS

Tra poco sarà un anno dal pogrom con cui Hamas ha dichiarato guerra a Israele e all’Occidente. L’Associazione Setteottobre, nata in Italia per combattere l’antisemitismo risorgente nelle nostre società, ha deciso di avviare una riflessione su che cosa è cambiato, dopo il 7 ottobre del 2023, nelle nostre vite individuali e nella vita collettiva.


Carmelo Palma

Il 7 ottobre non ha solo certificato l’inopinata fragilità dei sistemi di sicurezza di Israele, ma anche la (purtroppo) molto più prevedibile vulnerabilità dell’opinione pubblica dei paesi liberi alla recrudescenza antisemita.
Il 7 ottobre, dunque, non è stata solo la fine del “Mai più” dopo Auschwitz e la più orrenda carneficina di ebrei dai tempi della Shoah, ma anche la fine dell’innocenza dell’Occidente per un odio che è maturato nelle viscere dell’Europa e che la violenza fanatica contro Israele del mondo arabo e islamico ha rinnovato nella progenie degli antichi carnefici.
Per questo, milioni di persone hanno pensato di tollerare (quando non di festeggiare) le gesta di Hamas come una manifestazione di violenza certo efferata, ma tutto sommato scriminata dallo scandalo che l’esistenza di Israele e la presenza degli ebrei in quello spicchio di mondo mediorientale continua insopportabilmente a rappresentare.
Il bilancio politico del 7 ottobre, quello che Yahya Sinwar potrà vantare come uno straordinario successo, è che ammazzare gli ebrei suscita nelle democrazie più comprensione verso la causa degli assassini che delle vittime, più isolamento per lo stato ebraico che per Hamas, più misericordia per la mattanza bestiale dei tagliagole che per le colpe, gli errori o, semplicemente, le conseguenze – tutte regolarmente rubricate alla voce “crimini umanitari” – delle azioni di un esercito regolare costretto a fronteggiare un nemico, che si nasconde dietro a due milioni di scudi umani e che programma l’ecatombe del proprio popolo, per affogare nel sangue dei martiri la legittimità di Israele.
A quasi un anno dal 7 ottobre non solo “lì”, ma anche “qui” essere ebrei è spesso una condizione di colpa e sempre una condizione di pericolo. Chiudere le porte agli ebrei – che siano imprenditori, scienziati o sportivi – è diventata una giustificata misura di sicurezza o, peggio, una patente di sensibilità umanitaria per le sofferenze del popolo palestinese. È un orrore, ancora più orribile perché perfettamente normalizzato.


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