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L’ANTISEMITA CHE È IN NOI

L’ANTISEMITA CHE È IN NOI

Daniele Renzoni

Si intensificano gli sforzi, diplomatici e militari, per siglare una tregua tra Israele e Hamas (un vertice di servizi di più Paesi anche a Roma). Se, e quando, riusciranno è l’attesa di tutti, prime fra tutte le famiglie degli ostaggi israeliani ancora vivi nei tunnel di Hamas a Gaza e dei pochissimi “innocenti” gazawi. Una tregua, comunque, sarà raggiunta, invece per una soluzione del quasi centenario conflitto israelo-palestinese l’orizzonte è sempre più infinito. 

Quello che è certo è che sul campo rimarrà l’antisemitismo, quello scoperto, spudorato, e quello del si ma. Quello antico mai realmente risolto religioso; quello dei pregiudizi costruito ad arte per ghettizzare una minoranza coscienza critica; quello che imputava agli ebrei l’origine di tutti i mali; quello che faceva comodo per trovare ogni tanto un capro espiatorio; quello territoriale contro chi ha messo a nudo incapacità e ritardi culturali; quello che ebrei e israeliani sono la stessa cosa. 

E poi quello dei si ma, quello che sa, anche vagamente, cosa è stata la Shoah; quello che rivendica amicizie con gli ebrei: quello che ricorda di discendere da chi ha prestato aiuto quando necessario; quello dell’ammirazione, anche se con un fondo d’invidia, per i tanti premi Nobel; quello dei viaggi in Israele e delle scoperte di progresso e di successo trovate. Si, ma la reazione israeliana alla strage di Hamas compiuta il 7 ottobre è sproporzionata. Si, ma oggi cosa intendono fare gli israeliani? Che obiettivo hanno? E ai palestinesi chi ci pensa? 

Ecco tutto questo antisemitismo ha ripreso vigore, non è più una vergogna, è stato sdoganato e i nostri concittadini ebrei non si sentono più sicuri nei Paesi occidentali. Tra di loro, nelle loro case, nelle loro famiglie si ripresentano fantasmi del passato che li costrinsero a emigrare e ricominciare una vita in altri mondi vittime anche dell’oblio del perché fuggirono da persecuzioni e cicliche stragi. Lo racconta bene in una intervista Yoram Ortona, un architetto milanese che dovette fuggire dalla Libia, insieme con la sua famiglia, all’età di sette anni mentre infuriava una delle tante guerre tra arabi e israeliani. Ortona rivela di sentirsi in Italia come si sentì allora a Tripoli. Tutto questo rimarrà, sarà difficilissimo recuperare il terreno perduto e soprattutto sarà infinita la battaglia per sgominare quel fondo di antisemitismo che l’occidente non ha mai definitivamente metabolizzato.