SETTEOTTOBRE
L’ESPRIT DU TEMPS
Tra poco sarà un anno dal pogrom con cui Hamas ha dichiarato guerra a Israele e all’Occidente. L’Associazione Setteottobre, nata in Italia per combattere l’antisemitismo risorgente nelle nostre società, ha deciso di avviare una riflessione su che cosa è cambiato, dopo il 7 ottobre del 2023, nelle nostre vite individuali e nella vita collettiva.
Giancarlo Giojelli
Quella mattina del sette ottobre io e mia moglie Stefania eravamo a Parigi. Avevamo lasciato la nostra amata Gerusalemme da due giorni, chiuso la bellissima casa dove avevamo abitato, salutato gli amici. Qualche giorno di vacanza prima di trasferirci di nuovo a Roma, con la certezza che saremmo presto tornati nella città che da tantissimi anni amiamo. Quella mattina squillano i telefoni, sul mio compare un messaggio della producer della Rai, Noa, diventata nel tempo cara amica per entrambi. Due parole: “caos totale”. Poi arrivano i filmati, postati su Telegram dagli jihadisti: soldati uccisi, corpi trascinati. Il producer arabo mi inoltra il link a un canale web di Hamas: c’è la diretta di un giornalista palestinese da un kibbutz, intorno uomini armati che sparano. Chiamate dall’Italia, tante, amici e parenti (Dove siete? Cosa succede?). Alcuni siti di informazione e una radio mi chiedono commenti, spiegazioni. Come è potuto accadere? Dove è l’esercito? Un festival musicale dicono, e vedo passare le immagini dei ragazzini inseguiti, di Noa rapita, della nonna Jaffa, 81 anni, portata via dignitosa e composta dai terroristi urlanti. La mente si scinde: da un lato l’orrore, dall’ altro il bisogno di lucidità per raccontare quello che vedo (ma nessuno ha visto in diretta quei filmati?), il pensiero e le telefonate agli amici che sono lì. Ai colleghi. Stavamo andando a Versailles, in quella breve vacanza e la giornata passa tra migliaia di turisti ignari venuti da tutto il mondo, noi nascosti dietro le tende a telefonare e mandare messaggi e scrivere pezzi al volo. Il senso di irrealtà, ricordo, in mezzo alla indifferenza di gente di ogni lingua e nazione. Confesso: ero stravolto ma non stupito, da anni ricevevo sul telefono i messaggi postati da Hamas, i video che annunciavano quello che avrebbero fatto. Era sotto gli occhi miei e del mondo. Non ci abbiamo creduto. Come non crediamo ora alle promesse dell’Iran e dei suoi proxy (‘colpiremo gli ebrei anche di fuori di Israele’), che rimbalzano sui media arabi. Una ragazza, ostaggio liberato, ha detto: “credevo di morire o peggio di restare schiava a Gaza, prigioniera dell’odio. Non speravo di uscirne, ma ero certa che se fossi uscita avrei trovato il mondo ad abbracciarmi”. È uscita: “E ho trovato lo stesso odio contro di me, nelle piazze d’Europa, nei campus americani”. Un odio montante nel mondo e tra l’indifferenza del mondo, non contro i terroristi di Hamas ma contro Israele e tutti gli ebrei. Siamo tornati a Gerusalemme e il muro di odio è una evidenza. È cresciuto, nelle manifestazioni che abbiamo visto a Parigi, nelle scuole dove mi hanno invitato a parlare. Nelle prime settimane si riusciva a spiegare e dialogare. Poi solo slogan e bandiere. Demonizzazione di Israele (non del suo governo), delegittimazione del diritto a esistere dello Stato ebraico (from the river to the sea), doppio standard nei giudizi (“ebrei genocidi”). E gli amici che vivono là ti raccontano un quotidiano tra paura montante e disperata voglia di normalità, i figli in guerra e gli incontri in famiglia, gli amici che vivono qui che non capiscono perché non riesci a spiegare che là e qui non hanno più senso. È una guerra di civiltà ma non ha un confine geografico. Finirà, in un modo o nell’altro, ‘questa’ guerra, ma è chiaro che sarà solo la fine di una delle tante guerre che compongono la stessa, identica guerra combattuta nel mondo mentre il mondo cammina incosciente e ammirato tra gli specchi e gli stucchi dorati di un passato che non esiste. Le ‘proche orient’ non è solo il vicino oriente, è ‘prochaine’ la prossima, e vicina, guerra totale, il futuro prossimo della nostra civiltà.
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