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LA MORTE DI SINWAR PUÒ SEGNARE UNA SVOLTA

LA MORTE DI SINWAR PUÒ SEGNARE UNA SVOLTA

Luigi Mattiolo

La morte di Sinwar segna un’indiscussa vittoria simbolica, prima ancora che militare, da parte di Israele. Essa completa il cerchio dell’eliminazione dei vertici di Hamas, il cui capo politico Haniyeh è stato ucciso a Teheran nel luglio scorso, e di molti dei suoi quadri, oltre ad aggiungersi all’uccisione del capo riconosciuto di Hezbollah, Nasrallah, avvenuta a Beirut lo scorso settembre. Allo stesso tempo la capacità offensiva di Hamas nella Striscia di Gaza è stata drasticamente ridimensionata dalla massiccia operazione militare che dura da quasi un anno, mentre restano incombenti le minacce per Israele rappresentate dagli attacchi dell’Iran, di Hezbollah dal Libano, delle milizie sciite da Iraq e Siria, degli Houti dallo Yemen e delle cellule terroristiche presenti all’interno del territorio.

Resta ora da vedere se la morte di Sinwar, artefice del massacro del 7 ottobre, rappresenterà un’autentica svolta del conflitto in corso. La notizia della sua eliminazione è stata ovviamente accolta in Israele con soddisfazione e il Premier Netanyahu l’ha ascritta al successo di una poderosa campagna militare a Gaza, che pur ha avuto ripercussioni gravissime sulla popolazione civile e ha alienato ad Israele il sostegno di molti paesi occidentali. Nelle famiglie dei 101 rapiti ancora nelle mani di Hamas, tuttavia, prevale il fondato timore di rappresaglie contro gli ostaggi da parte di un’organizzazione terroristica allo sbando e per questo forse ancora più temibile e feroce. 

In questi mesi, in molti abbiamo osservato come le priorità strategiche del governo Netanyahu e dell’opinione pubblica israeliana non coincidessero del tutto. Sono certamente condivise l’amara consapevolezza della vulnerabilità dello Stato ebraico, dell’esigenza di fare quadrato attorno ai propri soldati e di non poter contare sulla solidarietà internazionale, al di là di sbrigative espressioni di compassione per le atrocità del 7 ottobre, come pure la netta percezione del progressivo isolamento di uno Stato ebraico che si sente vittima e si vede etichettato da carnefice. Mentre, tuttavia, Netanyahu ha individuato nell’eliminazione delle minacce contro Israele l’obiettivo prioritario della sua azione, una larga parte della sua opinione pubblica ha reclamato la necessità di fare ogni sforzo possibile per ottenere innanzitutto il ritorno a casa di tutti gli ostaggi.

L’eliminazione di Sinwar può offrire l’opportunità di far convergere le priorità politiche e strategiche di Netanyahu con quelle della maggioranza della popolazione israeliana, che non si riconosce nei partiti ultraortodossi della coalizione di governo, che trema per la sorte degli ostaggi e per quella dei propri figli al fronte, che subisce l’impatto della guerra (la più lunga mai combattuta dallo Stato di Israele sin dal 1948) su un’economia un tempo florida, moderna e proiettata al futuro.

Per giungere a questo risultato dovranno verificarsi almeno due condizioni. La prima è che il governo israeliano ritenga che, quanto meno nei confronti di Hamas, abbia trovato attuazione la dottrina militare che da sempre ispira le forze armate israeliane: di fronte alla minaccia o al verificarsi di un attacco è necessario ristabilire la deterrenza, ovvero fare in modo che il nemico sia posto in condizioni di non nuocere per un ragionevole lasso di tempo. È questa la strategia che lo Stato ebraico ha perseguito negli anni nei confronti dei suoi avversari: dai paesi arabi agli albori della sua storia, al Libano, alla Cisgiordania e Gaza ai giorni nostri.

Nel rivolgersi al popolo israeliano per confermare la morte di Sinwar, tuttavia, Netanyahu ha dichiarato che la guerra prosegue e ha mostrato di continuare a ritenere che l’annientamento di Hamas sia il mezzo migliore per liberare gli ostaggi.

Vi è dunque il fondato pericolo che l’eliminazione di Sinwar dia adito a un’ulteriore scalata del conflitto a Gaza, a reazioni ancora più brutali di Hamas e dei suoi sodali e metta ulteriormente a repentaglio la sopravvivenza e la liberazione degli ostaggi. Questo scenario acuirebbe l’isolamento internazionale di Israele e approfondirebbe le fratture al suo interno. 

La seconda condizione per fare della morte di Sinwar una svolta positiva è quindi affidata alla possibile iniziativa degli Stati Uniti, che malgrado i ruvidi rapporti col governo Netanyahu restano l’unico paese al mondo su cui Israele può contare. Lo dimostrano le essenziali forniture militari che Washington garantisce a Gerusalemme (senza le quali non sarebbe possibile difendere Israele dagli attacchi concentrici cui è sottoposto da mesi); l’esplicito apprezzamento americano per l’eliminazione dei vertici di Hezbollah e Hamas; il fondamentale contributo militare e diplomatico americano per contrastare gli attacchi di Teheran e dei suoi seguaci nella regione, mobilitando discretamente alcuni paesi arabi sunniti.

Il Presidente Biden è ovviamente consapevole che il conflitto scatenato in Medio Oriente il 7 ottobre dello scorso anno è destinato a durare e che il vero motore della crisi è l’Iran. Tuttavia, a differenza di Netanyahu, ha un formidabile interesse politico a promuovere un qualche allentamento delle tensioni e a marcare la sua uscita dalla Casa Bianca con un cessate-il-fuoco a Gaza, reso possibile dalla totale e incondizionata liberazione di tutti gli ostaggi. C’è da augurarsi che in queste ore riprendano con vigore i negoziati a questo scopo condotti da Stati Uniti, Egitto e Qatar, che mesi or sono avevano permesso la liberazione di qualche decina di loro, ma anche rivelato drammaticamente che di molti di essi Hamas non aveva più il controllo, avendoli consegnati a complici e fiancheggiatori.

Ben diverso è lo scenario della guerra di Israele contro Hezbollah in Libano. Malgrado la morte di Nasrallah e del suo presunto successore e la sorprendente offensiva condotta attivando l’esplosivo introdotto in migliaia di cerca-persone utilizzati dai miliziani del Partito di Dio, la penetrazione dell’esercito israeliano sul suolo libanese ha segnato una svolta drammatica con pesanti implicazioni politiche e strategiche. Il Libano non è Gaza, bensì uno Stato sovrano, ancorché fallito. Hezbollah non è Hamas. Ne condivide la natura terroristica e l’obiettivo di estirpare lo Stato ebraico dalla regione, ma è ben più potente militarmente e influente politicamente. È ormai una componente del mosaico libanese, controlla un’ampia fascia del territorio, dispone di un arsenale formidabile (per ora solo intaccato dagli attacchi israeliani), gode del vasto appoggio della popolazione sciita ed è il conclamato braccio armato di Teheran nella regione. L’esigenza del governo Netanyahu di reagire militarmente ai pesanti attacchi missilistici da Nord e di far rientrare nelle loro case le migliaia di profughi dalla Galilea, lo ha posto in rotta di collisione con UNIFIL, quindi con le Nazioni Unite, oltre che con importanti membri della comunità internazionale, a cominciare dalla Francia, come dimostrano le minacciose esternazioni del Presidente Macron.

Anche in questo caso la comunità internazionale ha delle grandi responsabilità se davvero intende porre fine al conflitto in corso. Non basta stracciarsi le vesti per l’oltraggio al diritto internazionale rappresentato dagli attacchi israeliani (deliberati o meno) contro i Caschi Blu dell’ONU. Il mandato di UNIFIL è debole e inadatto alla bisogna. La presenza pluridecennale di osservatori internazionali armati per la propria autodifesa non è bastata ad assicurare la smilitarizzazione del Libano meridionale richiesta dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, perché nei fatti il ritiro israeliano nel 2006 ha aperto la strada al consolidamento delle postazioni militari di Hezbollah, cresciute all’ombra di UNIFIL. È giunto il momento di affrontare a New York il nodo del rafforzamento del mandato di questa Missione e che i paesi occidentali che siedono in Consiglio di Sicurezza se ne facciano carico. Non sarà facile, anche perché da chi propone una simile soluzione ci si attende una disponibilità a schierare, e soprattutto a rischiare, i propri soldati sul terreno. Soprattutto, non possiamo attenderci un’adesione all’iniziativa da parte della Russia e della Cina e dei loro sodali nel Consiglio di Sicurezza. Il rischio è scoprire che “il re è nudo”: che le Nazioni Unite hanno fallito il loro scopo, ma la paura di questo epilogo non autorizza l’ignavia di una comunità internazionale che sempre più sembra decisa a non decidere.