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IL FREDDO, LE RESPONSABILITÀ DI HAMAS E L’INFORMAZIONE

IL FREDDO, LE RESPONSABILITÀ DI HAMAS E L’INFORMAZIONE

Daniela Santus

“Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo”, probabilmente è stato questo verso della celebre canzoncina natalizia, composta a metà del 1700 dal vescovo napoletano Alfonso Maria de’ Liguori, ad aver ispirato i recenti titoli dei quotidiani: “Sono quattro, i neonati morti di freddo a Gaza in questi giorni”. Il quotidiano cattolico Avvenire, ripreso poi da Vatican News, si è spinto oltre affermando che la temperatura, dall’inizio della settimana, era scesa a “meno nove gradi” motivo per cui era mancata a Khan Younis, nella notte tra il 24 e il 25 dicembre, la piccola Sila. “Avessi avuto un maglione in più” avrebbe affermato Nariman, la mamma, “ma anche la mia pelle era gelida”. Certo una temperatura di -9 gradi è dura da affrontare: nemmeno a Mosca a Natale, quest’anno, ci sono stati 9 gradi sotto lo zero. Possibile che a Gaza e a Khan Younis ci sia una temperatura più rigida che a Mosca? Ad una rapida consultazione dei siti meteo, si può facilmente evincere che né nell’una né nell’altra località mediterranea il clima è più freddo che a Mosca: la temperatura media massima, nel dicembre 2024 a Gaza, è stata di 20°C e la minima di 15°C; con una variazione tra i 19°C e i 14°C negli ultimi giorni. Clima tendenzialmente secco che sta andando purtroppo a peggiorare con l’arrivo di due giorni di pioggia anche intensa. La temperatura varierà, secondo i principali siti meteo, man mano che ci si addentra nel mese di gennaio: a Khan Younis il 6 gennaio si stima una temperatura tra gli 8°C (della notte) e i 22°C (del giorno).

Di fatto è noto, soprattutto a quanti abbiano visitato il Negev, che l’escursione termica tra giorno e notte è molto forte. Persino a Gerusalemme, che è posta a 754 m slm, la mattina i ragazzi vanno ancora a scuola in maniche corte, mentre la sera indossano un maglioncino. Per i palestinesi, costretti a vivere nelle tende da una guerra loro imposta da Hamas, le sofferenze sono innegabili: su questo non si discute. Si dovrebbe invece discutere sul fatto che è su questa sofferenza che punta da sempre Hamas, per portare avanti il suo piano genocidario nei confronti d’Israele. Per quale motivo i media internazionali si prestano al gioco di una leadership palestinese che non si è mai fatta scrupolo di accrescere la sofferenza del suo popolo al solo scopo di cancellarne un altro?

Come dovrebbe essere altrettanto noto, la mortalità neonatale a Gaza è sempre stata piuttosto elevata: nel 2022, ad esempio, si sono registrati una media di 15,23 neonati deceduti su 1.000 nati vivi (non c’era la guerra e tutti i 36 ospedali di Gaza, uno ogni 10 kmq, erano in funzione), mentre nel 2024 si stima che il dato sia addirittura leggermente migliorato: 15,1/1000. Non è pertanto “solo” colpa del clima (tutti i neonati – non soltanto nella Striscia – rischiano il decesso per ipotermia, a maggior ragione a basse temperature notturne e con l’aria resa fredda dall’umidità del mare) e, a ben vedere, non è neppure “solo” colpa della guerra: se cerchiamo un responsabile di questa catastrofe, lo troveremo facilmente nel malgoverno di Hamas che, per venti anni, ha dirottato le ingentissime somme di denaro ottenute dalla comunità internazionale per costruire tunnel e acquistare armi, piuttosto che per l’istruzione, la prevenzione, la salute, la pace. La leadership di Hamas sa perfettamente che un neonato, costretto a venire al mondo e a vivere sotto una tenda può morire e sa che, se muore a Natale, le testate giornalistiche del pianeta accuseranno Israele: ecco perché accrescere il numero di morti infantili giova drammaticamente “alla causa”. Come aveva più volte affermato l’ormai defunto leader di Hamas, Ismail Haniyeh: “l’ho detto e ripetuto molte volte: siamo noi ad avere bisogno del sangue dei bambini, delle donne e degli anziani per rinvigorire lo spirito rivoluzionario”.

Consapevoli di ciò, non possiamo pertanto fare a meno di chiederci per quale motivo ci venga raccontata questa storia triste – perché la morte di ogni bimbo è drammaticamente triste – proprio la notte di Natale. Come si può evincere chiaramente dalle percentuali dei decessi neonatali, ci sono stati decessi per ipotermia già prima della guerra, ma non ci sono stati mai raccontati, per lo meno non dalla quasi totalità dei media: si è scelto di farlo proprio a Natale. Che sia, anche questo, un modo per provare a recidere ogni collegamento tra la cristianità e le sue radici ebraiche? I piccoli di Gaza, di Khan Younis, che tremano al gelo (anche se si è dovuta un po’ forzare la mano al meteo che non è mai sceso a -9) non ricordano forse il bambinello Gesù nato, secondo la tradizione, al gelo in una grotta di Betlemme? Ancora una volta l’assimilazione è sempre la stessa: l’ebreo Gesù viene fatto nascere come palestinese. Eppure a Gaza i cristiani sono stati decimati sotto il governo di Hamas: erano 5000 prima che Hamas prendesse il potere, ne erano rimasti soltanto 1000 nell’ottobre 2023, prima dello scoppio della guerra.

Con il sincero rispetto nei confronti delle morti, delle deprivazioni, della paura, della fame e della sete che il popolo di Gaza sta subendo a causa di Hamas e delle sue scelte disumane, riteniamo che non sia rendere a quel popolo un buon servigio continuare a pubblicare notizie che stringono il cuore, ma che possono essere facilmente ricondotte a una mostruosa scelta propagandistica (come il fatto di comunicare quei decessi proprio a Natale) del Ministero Palestinese della Salute o a non ben precisate “fonti palestinesi”. La mortalità neonatale e infantile a Gaza è da sempre una piaga e se i dati percentuali non ci dimostrano un drastico peggioramento, a causa della guerra e/o del clima, possiamo solo chiederci a cosa servissero i 36 ospedali della Striscia: si trattava soltanto di depositi di armi? Il loro scopo principale era forse quello di essere utilizzati come copertura per i miliziani di Hamas, più che per sviluppare tecniche chirurgiche o reparti di neonatologia? Per capire infatti la portata del numero di ospedali, basti pensare che 36 ospedali su 2.142.000 abitanti sta a significare un ospedale ogni 59.500 abitanti e se a prima vista vi sembrano pochi, non dimentichiamo che a Roma ve n’è uno ogni 130.887.

Non porsi questa domanda significa non interessarsi alla possibile soluzione. Non chiedersi il perché, nonostante il termometro segni 20°C, l’agenzia palestinese Wafa affermi che la temperatura è scesa a -9°C, e riportare pedissequamente la notizia, senza cercare una spiegazione, significa non voler vedere la realtà. Anche questa è una scelta. Optare per la cecità, scegliendo di pubblicare informazioni vere a metà. Pensiamo alle notizie sulle scuole dell’UNRWA: perché non è dato far conoscere che almeno 24 tra presidi, vicepresidi e insegnanti, stando ai documenti rinvenuti nelle “scuole”, erano membri attivi di Hamas o della Jihad Islamica, possedevano fucili d’assalto, bombe a mano e partecipavano a esercitazioni paramilitari organizzate dai due gruppi terroristici? Perché riportare pedissequamente le notizie date da fonti di Hamas, come quella che vuole che pochi giorni fa, nella zona di Nuseirat, siano stati uccisi ben 5 giornalisti, mentre Israele afferma si sia trattato dell’eliminazione di una cellula terroristica? Perché non raccontare che, nonostante l’islam affermi di avere un profondo legame con la città di Gerusalemme, nella notte tra il 27 e il 28 dicembre gli Houthi dallo Yemen hanno sparato un missile proprio sopra a Gerusalemme? Siamo certi che questo legame non sia frutto di una semplice scelta politica? D’altra parte il Corano non cita mai espressamente Gerusalemme, né lo fanno i primi hadith, non per niente sino al X secolo i musulmani hanno chiamato la città Bayt al-makdis, dall’aramaico Bîth makde’shȃ, città del Tempio. Una vera e propria testimonianza della consapevolezza dell’ebraicità della città: lo stesso termine Al-Kuds – che molti erroneamente traducono “la santa” – deriva in realtà dall’ebraico ‘ir hakkodesh e significa “città del santuario”. Alla città di Gerusalemme l’islam non ha infatti mai conferito lo status di haram, luogo santo, che è unicamente conferito alla Mecca e a Medina. Forse anche per questo ora c’è chi non si fa scrupolo nel cercare di colpirla.

Il fatto di voler trovare un facile colpevole – solo e sempre Israele – fa dimenticare l’obiettivo primario che dovrebbe essere quello di condurre la regione a una pace giusta per israeliani e palestinesi. Una pace che includa, per gli israeliani, il non dover correre a cercare riparo in un rifugio, tutti i giorni e tutte le notti, da quando si è nati, perché le sirene ti squarciano le notti e i giorni a causa dei missili lanciati dallo Yemen, da Gaza, dal Libano, dall’Iran (che, quando non vengono intercettati, colpiscono case, scuole, ospedali). Una pace che includa, per i palestinesi, la possibilità di liberarsi dal giogo di chi tratta i propri bambini come carne da macello e rende onore alle proprie donne solo quando vestono i panni (o meglio, le cinture esplosive) da martiri. Una pace giusta potrebbe forse essere favorita anche da un equilibrato atteggiamento da parte dei media: tralasciando il discorso legato alle temperature di Gaza, quando si scrive – per non ricordare che uno degli ultimi argomenti trattati dai media – di deliberate distruzioni di condutture idrauliche da parte d’Israele, si è convinti che questo serva a far progredire la pace? Si è certi di aver fornito correttamente tutte le informazioni? Non sarebbe più significativo, per la normalizzazione della regione, mettere in evidenza anche le positive azioni comuni? In realtà la disinformazione colpisce duro e nasconde ciò che, pur tra mille difficoltà, riesce a resistere e da cui potrebbe forse partire il ritorno alla vita: israeliani e palestinesi (dell’ANP) stanno, ad esempio, riparando l’impianto di desalinizzazione di Deir al-Balah, collegato alla rete elettrica israeliana. Non sarebbe stata, questa, una bella storia da raccontare a Natale? Secondo l’UNICEF, da quando è stata ricollegata alla rete elettrica israeliana, la stazione produce circa 16.000 metri cubi di acqua al giorno. Un passo avanti, nonostante la guerra e nonostante il fatto che gli ultimi ostaggi israeliani rimasti in vita – e i corpi di quelli assassinati – non abbiano ancora fatto ritorno a casa. Ma di loro, i più si sono già dimenticati.