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CONFLITTO IN MEDIO ORIENTE: QUALCOSA SI MUOVE?

CONFLITTO IN MEDIO ORIENTE: QUALCOSA SI MUOVE?

Luigi Mattiolo

In questi giorni in cui i media internazionali e quindi le opinioni pubbliche sono concentrati sulla scomparsa di Papa Francesco, il significato del suo Pontificato e l’identità possibile del suo successore, non stanno riscuotendo la necessaria attenzione alcuni sviluppi che pure vanno registrati nel conflitto in Medio Oriente. Non mi riferisco purtroppo alla situazione sul terreno. Questa, infatti, resta caratterizzata dalla protratta prigionia di una sessantina di ostaggi israeliani catturati da Hamas il 7 ottobre 2023, dalla ripresa delle operazioni militari dell’IDF a Gaza (una volta esaurita la prima fase della tregua e dello scambio tra detenuti palestinesi e rapiti israeliani, di cui alcuni in vita, altri non più), dai ripetuti attacchi missilistici lanciati contro Israele dai ribelli Houti yemeniti al soldo dell’Iran.

Eppure, qualcosa si muove. Innanzitutto, all’interno di Israele dove sono sempre più accorate le proteste dei parenti degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas che si rendono conto che ogni giorno aumenta il rischio che non possano riabbracciare i loro cari ma al massimo riuscire a dar loro una degna sepoltura. Le dimostrazioni che da anni ormai denunciano la deriva autoritaria del Premier israeliano e le ferite da lui inferte alla natura profondamente democratica dello Stato di Israele si sono trasformate in grida in favore dell’interruzione delle ostilità in cambio del ritorno immediato di tutti gli ostaggi, alle quali si sono unite anche quelle di migliaia di riservisti che a Gaza hanno combattuto e rischiato la propria vita. Le clamorose dichiarazioni rese alla Corte Suprema israeliana dall’ex-Capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interna), Ronen Bar, hanno ulteriormente allargato il divario tra il Premier Netanyahu, che le ha smentite categoricamente, e quanti nell’opinione pubblica israeliana non si riconoscono nel suo governo. Bar, infatti, ha ignorato i richiami governativi a non testimoniare e, viceversa, ha accusato il Primo Ministro di aver occultato la sua scelta scellerata di tollerare l’afflusso di ingenti risorse finanziarie fornite a Hamas dal Qatar e di aver richiesto invano allo Shin Bet di schedare i dimostranti che quotidianamente danno voce all’opposizione contro il governo. Dichiarazioni dirompenti cui la libertà di stampa in vigore nel Paese ha permesso di dare ampia diffusione confermando la lettura di numerosi osservatori circa le ragioni profonde e inconfessate della condotta politica e militare adottata da Netanyahu, nonostante la grande maggioranza della popolazione veda ormai nella riconsegna degli ostaggi l’obiettivo primario da raggiungere a ogni costo.

Sviluppi ancora più importanti si sono da ultimo registrati sul fronte palestinese. In primo luogo, a Gaza, dove la popolazione civile, ormai prostrata dai lutti subiti e sfinita dalle privazioni imposte da quasi due anni di conflitto e dalla paralisi degli aiuti umanitari, comincia a realizzare di essere anch’essa ostaggio di Hamas. I gazawi che hanno trovato il coraggio di scendere in piazza, sfidando la crudele repressione dei governanti della Striscia, hanno apertamente denunciato la follia suicida che li ha trasformati in scudi umani e ha invocato la fine alle ostilità. 

Sebbene i media internazionali abbiano spesso liquidato questi eventi con qualche riga stampata e qualche secondo di immagini televisive, la nascente opposizione all’interno di Gaza ha saputo emergere anche in importanti sedi istituzionali internazionali. Lo scorso 16 aprile, ad esempio, Hamza Howidy, un giovane attivista per i diritti umani nato e vissuto a Gaza sino al suo esilio in Germania, insieme a uno dei promotori del Movimento di protesta “Vogliamo vivere” (in collegamento protetto da Gaza), è intervenuto di fronte alla Commissione Affari Esteri del Senato italiano dove ha denunciato i crimini commessi da Hamas ai danni dei propri oppositori giungendo alla conclusione che la fine del regime di Hamas è l’unica premessa credibile per la cessazione delle ostilità.

Ancora più significativa e autorevole appare l’invettiva lanciata il 23 aprile scorso dal Presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, che ha stigmatizzato i leader di Hamas per la loro condotta ai danni della popolazione di Gaza e li ha incitati a rilasciare immediatamente tutti gli ostaggi e a deporre le armi per trasformarsi da milizia armata in una forza politica con cui l’Autorità Palestinese si dice pronta a dialogare. Sappiamo che Abu Mazen è un leader anziano e contestato da più parti. Tuttavia, malgrado per ragioni anche anagrafiche non possa incarnare il futuro della dirigenza palestinese, resta l’unico accreditato rappresentante del popolo palestinese, i cui emissari a Gaza furono massacrati e costretti alla fuga dalla Striscia nel 2007, a seguito delle ultime elezioni cui i Palestinesi abbiano avuto diritto, che videro la vittoria di Hamas.

Si tratta di sviluppi certamente ancora fragili ma essi andrebbero fortemente sostenuti e incoraggiati con prese di posizione chiare e univoche da parte dei principali attori internazionali e anche dei media che tanta parte hanno nella lettura polarizzata e manichea del conflitto in Medio Oriente, ormai dominante.

La società israeliana è dotata di antidoti democratici e difende le proprie libertà fondamentali. Dobbiamo sperare che le pressioni dell’opinione pubblica abbiano infine la meglio sulle tattiche del Governo e che dal ritorno degli ostaggi, premessa irrinunciabile per la cessazione delle ostilità, prenda le mosse un processo di revisione critica delle scelte fatte e un’analisi delle responsabilità di fondo che hanno finito per mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa di Israele.

La società palestinese è molto più divisa e meno tutelata da forme mature di democrazia. L’obiettivo primario è dunque la promozione di una dirigenza politica capace di affrontare i bisogni del momento ma soprattutto di accettare in futuro l’esistenza di uno Stato ebraico con cui convivere. 

Stati Uniti e Unione europea dovrebbero essere in prima linea nel partecipare a questa impresa, ma appaiono a dir poco impreparati. L’Amministrazione Trump ipotizza improbabili trasferimenti della popolazione e professa una visione turistica della Striscia di Gaza. Gli Stati membri dell’Unione europea sono incapaci di concordare una lettura comune del conflitto in Medio Oriente, salvo lamentare che l’UE abbia speso inutilmente enormi quantità di danaro in aiuti umanitari e ricostruzione. Oppure si dividono lungo crinali ideologici e impennate retoriche, come dimostra anche la recente mozione parlamentare adottata dalle forze politiche della Sinistra italiana in cui tra l’altro si impegna il nostro Governo a “riconoscere lo Stato di Palestina come Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967” quale premessa per rilanciare il Processo di pace, ignorando che il vero nodo da sciogliere è il riconoscimento reciproco tra Stato ebraico e Palestina, che non potrà  intervenire che al traguardo di quel processo.

È ben diverso il caso dei Paesi arabi sunniti, già in parte protagonisti delle trattative che hanno condotto alla prima fase della tregua a Gaza e al rilascio di alcuni ostaggi israeliani, ma soprattutto accomunati a Israele da una condivisa percezione della minaccia (nucleare e terroristica) rappresentata dall’Iran degli Ayatollah, e uniti al popolo palestinese da legami religiosi, politici e culturali. Essi, quindi, sono i meglio piazzati per propiziare un’uscita di scena dei dirigenti di Hamas e individuare i possibili leader palestinesi del futuro, nonché forniti dei mezzi economici necessari alla ricostruzione e allo sviluppo dello Stato palestinese in un domani ancora lontano.

Dunque, un primo terreno di convergenza e cooperazione tra Europa e Stati Uniti, oggi così distanti tra loro, nella trattazione del dossier mediorientale potrebbe svilupparsi attorno a uno sforzo congiunto per coinvolgere i Paesi arabi (Egitto, Giordania, monarchie del Golfo) in questo progetto politico e diplomatico a lungo termine. D’altra parte, malgrado le gravi ripercussioni umanitarie della crisi a Gaza e la mobilitazione unilaterale di molte piazze arabe (e occidentali) contro lo Stato ebraico, è significativo e incoraggiante che nessuno dei paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, Sudan) che nel 2020 firmarono gli Accordi di Abramo con Israele e Stati Uniti abbia rinnegato quelle intese.