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ISRAELE: DIECI BUGIE PER DIECI GIORNI #5

ISRAELE: DIECI BUGIE PER DIECI GIORNI #5

Nicoletta Tiliacos

Dopo il 7 ottobre 2023, di fronte all’ondata di antisemitismo che percorre le società occidentali e contagia le giovani generazioni, è sempre più necessario smontare le menzogne sullo Stato ebraico, tese a negarne lo stesso diritto all’esistenza. Nel pamphlet intitolato “Le dieci bugie su Israele”, la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein analizza i più deleteri luoghi comuni dell’odio antiebraico e antisraeliano, confutandoli uno per uno e smascherando le manipolazioni della realtà su cui si fondano. 
Setteottobre ringrazia l’autrice, che ha accettato di mettere a disposizione del nostro sito questo suo prezioso lavoro, e la Federazione delle Associazioni Italia-Israele, che nell’aprile 2024 ne ha pubblicato e diffuso gratuitamente la versione cartacea.

È possibile scaricare gratuitamente il libro di Fiamma Nirenstein nella versione completa sul sito della Federazione delle Associazioni Italia Israele.

Bugia n. 5: L’occupazione dei territori palestinesi è la causa principale del conflitto

Fiamma Nirenstein

Nella discussione sul 7 ottobre, ormai diventata data spartiacque nel nuovo rilancio dell’antisemitismo, capita che quest’ultimo sia attribuito all’“occupazione” del “territorio palestinese”, e che ci si riferisca con incredibile leggerezza a “75 anni” fa, cioè alla nascita dello Stato di Israele. Guterres, i leader della UE, i protagonisti delle manifestazioni di piazza, i professori di sinistra nelle Università, affermano con grande noncuranza e sicumera che da 75 anni i palestinesi soffrono l’oppressione (altra parola chiave) da parte dello Stato Ebraico, che occupa la loro terra. Secondo questo mito, l’occupazione è la principale causa della mancanza di pace. Tutto questo è falso. Israele, che comprende la Giudea e la Samaria, è sempre stato l’epicentro dell’origine e della vita del popolo ebraico, anche negli anni di un forzato esilio che, tuttavia, non è mai stato totale: molte città, come Safed e in parte Gerusalemme, dove l’espulsione degli ebrei è stata mirata e sanguinosa, sono sempre rimaste anche ebraiche. Poiché Israele è l’unico Stato Ebraico, il controllo del territorio è indispensabile per la sua stessa esistenza e sopravvivenza. Nel 1950 la Giordania annesse illegalmente la Giudea e la Samaria, denominandole “West Bank”, e anche se la comunità internazionale non ha mai accettato questa occupazione, nessuno si è sognato di contestare la legalità della situazione, come avviene con Israele dal 1967.

Tornando a 75 anni fa, ovvero alla fondazione dello Stato d’Israele, essa avvenne del tutto legalmente. Il diritto a una patria per il popolo ebraico, riconosciuto nel 1917 con la dichiarazione Balfour, viene ratificato dalla Dichiarazione di Sanremo, che nel 1920 “smonta” il potere ottomano che aveva governato il Medio Oriente. La Lega delle Nazioni riafferma nel 1922 “lo storico collegamento del popolo ebraico con la Palestina e per i terreni che ricostruiranno la sua casa nazionale in quel Paese”, e nel novembre del 1947, con la votazione a maggioranza delle Nazioni Unite, si definisce anche una divisione territoriale, detta partizione: lo Stato d’Israele non viene affatto, e in nessun modo, stabilito in sostituzione di uno Stato palestinese, mai esistito, e nemmeno rifiutando l’esistenza degli arabi nella Palestina mandataria sotto gli inglesi. Se gli arabi non avessero opposto un violento rifiuto armato alla partizione votata dalle Nazioni Unite, la decisione degli ebrei di vivere in pace con gli arabi avrebbe immediatamente dato luogo a due Stati, l’uno accanto all’altro. La coesistenza pacifica è sempre stata la stella polare del democratico e semisocialista Stato d’Israele nato nel 1948: sono gli arabi – con in testa il gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Hussein, che condivise con Hitler il progetto genocida dello sterminio degli ebrei – ad aver creato lo scontro razzista contro gli ebrei e praticato contro di loro la decisione genocida ed espulsionista ereditata da parte del mondo arabo. Anche la questione dei rifugiati non è il frutto di ingiustizie e/o di aggressione israeliane, ma è tutta nata dall’aggressività araba. Israele si limitò a difendersi dall’attacco arabo, di cui i palestinesi non erano che una piccola parte: la stessa parola “palestinesi” si riferiva allora non agli arabi, ma agli ebrei che vivevano nella Palestina mandataria.

Non è vero che l’occupazione del 1967 ha successivamente creato lo scontro ancora in atto: già nel 1920, gli attacchi terroristici cominciano a susseguirsi a ritmo sempre più frenetico, a testimoniare semplicemente il rifiuto arabo di una presenza ebraica. Ricordiamo gli attacchi del 1929 a Hebron e Safed, due delle città dove, insieme a Gerusalemme e Tiberiade, c’era sempre stata una maggioranza ebraica e dove si sono compiuti dei veri e propri pogrom, che costarono la vita a un centinaio di ebrei.

Gli insediamenti del 1967 nascono come presidi di difesa indispensabili, senza i quali, come ormai si legge bene nella realtà, Israele sarebbe stata costretta in una dimensione indifendibile, e come memoria di un’antica presenza ebraica su territori che sono stati sotto la dominazione giordana fino alla Guerra dei Sei Giorni, nel giugno del 1967. Israele fu costretto ad affrontare la guerra con la Giordania che occupava la Giudea e la Samaria perché ne sarebbe altrimenti stato ferito a morte, nel suo centro e a Gerusalemme. Israele combatte esclusivamente in autodifesa contro una guerra ispirata solo dal desiderio di distruggerlo. L’abusato termine “territori palestinesi occupati” non ha nessuna base e non è sorretto de nessun documento storico o legale. Gli accordi siglati nel tempo fra i leader palestinesi e gli israeliani non prevedono affatto che quei territori siano destinati a uno Stato palestinese, ma stabiliscono soltanto che la disputa sul loro destino debba risolversi attraverso negoziati, come stabilito dalle risoluzioni dell’ONU. È da notare tuttavia che Israele offrì subito un accomodamento internazionale che comprendesse il ritiro dalle zone occupate, trovandosi di fronte quel rifiuto dall’altra parte che, è bene tenerlo chiaro in mente, è sempre stata la posizione finale e la bandiera di ogni trattativa fra palestinesi e israeliani.

A seguito della sua inaspettata vittoria nella Guerra dei Sei giorni, Israele si offrì di trattare per la restituzione delle nuove conquiste (Sinai e Gaza, dall’Egitto, e Cisgiordania, dalla Giordania). Tuttavia, la Lega Araba, riunitasi a Khartoum nel 1967, produsse la celebre risoluzione dei “Tre no”, con la quale stabiliva: no alla pace, no ai negoziati e no al riconoscimento di Israele.

Qui comincia la lunga strada delle offerte con cui Israele cercò in ogni occasione, con governi di destra e di sinistra, di restituire i “Territori” in cambio di pace. Una formula reiterata nel tempo. Nel novembre del 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottò la risoluzione 242 per risolvere la diatriba sui “Territori”: essa non li definisce affatto “illegali” e non detta affatto, come Arafat invece seguitò a ripetere e come oggi l’UE sostiene, la restituzione “di tutti i Territori”, bensì il ritiro “dai Territori”. Stabilisce inoltre che si deve arrivare fra le due parti a un «pacifico e reciproco accordo che possa garantire alle parti di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti». La risoluzione parla quindi di conferimento ai palestinesi “da Territori” in modo confacente alle due parti, e questo significa che le due parti devono trovare fra loro una soluzione concordata, non imposta dall’alto o da terzi, tenendo presente la necessità di Israele di salvaguardare la propria sicurezza.

Sostenere che l’occupazione sia la causa del conflitto è semplicemente una descrizione maliziosa, superficiale, non realistica: in una parola, falsa. Sostenere che essa duri da 75 anni è come proclamare che si deve cancellare l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Purtroppo questo intento genocida lo vediamo presente e conclamato in molte espressioni di solidarietà con i palestinesi.

In realtà, la storia della mano tesa di Israele, dagli accordi di Oslo alle quattro offerte di uno Stato palestinese che comprendesse anche parte di Gerusalemme, è stata occasione, al contrario delle legittime aspettative, di una crescita della violenza e del rifiuto palestinese. Il “no” di Arafat a Camp David, nel luglio del 2000, seguito dalla seconda, sanguinosa Intifada con duemila morti israeliani, il rifiuto di Abu Mazen a intraprendere colloqui di pace senza precondizioni (come stabilito appunto dalla Risoluzione ONU 242), e la sua pretesa che i confini del ’67 siano considerati una conditio sine qua non di rinuncia per lo Stato Ebraico, vanno insieme alla incredibile quantità di attentati terroristici che, anche dopo il 7 di ottobre, hanno piagato le città israeliane, da Gerusalemme a Tel Aviv, dalle cittadine dei “territori” fino a Haifa e al lago di Tiberiade.


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