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LE ASIMMETRIE DELL’ONU

LE ASIMMETRIE DELL’ONU

Luigi Mattiolo

La recente approvazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite della Risoluzione che riconosce l’eligibilità della Palestina a membro a pieno titolo dell’ONU non è certamente una sorpresa.  Il risultato della votazione – una schiacciante maggioranza di 143 consensi, 9 voti negativi e 25 astensioni – era scontato: le Nazioni Unite riuniscono i rappresentanti di tutti i Paesi attualmente riconosciuti e le loro dinamiche interne riflettono fedelmente la loro composizione, come in qualsiasi assemblea i cui membri hanno uno status paritario (“una testa, un voto”). Le loro prese di posizione esprimono la prevalenza di una maggioranza di Paesi che – per vicinanza alla fede islamica e/o per animosità nei riguardi degli Stati Uniti e dei Paesi loro alleati – nutrono sentimenti ostili allo Stato di Israele e interpretano in questa chiave ogni aspetto del conflitto che affligge da oltre settanta anni il Medio Oriente. Infatti, Israele detiene il record negativo delle Risoluzioni di condanna da parte dell’Assemblea Generale di New York: 141 soltanto negli ultimi nove anni, a fronte di un numero ben minore nei confronti di Paesi che violano costantemente i principi della Carta (39 risoluzioni contro la Russia, otto contro la Corea del Nord, sette contro l’Iran). Una situazione analoga caratterizza gran parte degli organi specializzati delle Nazioni Unite. Valga per tutti l’esempio dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) che, pur avendo competenza su un fenomeno globale – l’incontrollato espandersi dei movimenti migratori sulla scorta delle drammatiche conseguenze di conflitti regionali e locali, persecuzioni politiche, etniche e religiose, disastri naturali e cambiamenti climatici – riserva ad Israele un’attenzione quasi esclusiva, come dimostrano le 104 risoluzioni adottate e le nove commissioni d’inchiesta istituite per condannare i comportamenti dello Stato ebraico, un attivismo che non trova riscontri su nessun altro scenario di crisi.

Sebbene la Risoluzione sullo status della Palestina paia destinata a mantenere un valore meramente simbolico, visto che l’ammissione a pieno titolo all’O.N.U. presuppone il consenso del Consiglio di Sicurezza che già ad aprile gli Stati Uniti hanno bloccato esercitando il proprio diritto di veto, quanto avvenuto il 10 maggio scorso a New York si presta ad alcune riflessioni.

In primo luogo, si tratta di un ulteriore inequivocabile segnale del crescente isolamento di Israele sulla scena mondiale, al punto che la Risoluzione è stata introdotta dagli Emirati arabi, pur tra i primi firmatari degli Accordi di Abramo. Dopo l’effimera solidarietà internazionale all’indomani degli atroci massacri del 7 ottobre e malgrado da allora si siano perse le tracce di oltre un centinaio di ostaggi, rapiti dai terroristi di Hamas, Israele è il principale destinatario dei severi ammonimenti internazionali di paesi amici e delle accuse dei nemici di sempre, sino al paradossale processo per genocidio di fronte alla Corte internazionale di giustizia. Non è un fenomeno nuovo, ma le sue attuali dimensioni non erano mai state sperimentate. Il diritto all’autodifesa legittimamente rivendicato dallo Stato ebraico (sotto attacco armato dal Libano, da Gaza e dallo Yemen) sembra disconosciuto dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale. Ciò è dovuto innanzitutto alla natura profondamente asimmetrica del conflitto in corso a Gaza: da un lato un esercito regolare dotato di armamenti sofisticati, naturalmente attento a limitare le perdite nelle proprie fila, al quale è assegnato l’ambizioso obiettivo di sradicare Hamas dalla Striscia di Gaza; dall’altro un nutrito e strutturato gruppo terrorista che non esita a nascondersi dietro la popolazione civile della Striscia, trasformata di fatto in un enorme scudo umano, e che conta sul sostegno finanziario, politico e militare di potenze regionali dichiaratamente ostili all’esistenza di Israele e pronte a cogliere ogni occasione per colpire gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali. In queste condizioni, la tradizionale preoccupazione di limitare i danni collaterali che caratterizza le Forze Armate israeliane confligge con le dimensioni della crisi umanitaria nella Striscia, né si intravvede quella exit-strategy che dovrebbe accompagnare l’esordio di ogni iniziativa militare.

In secondo luogo, si conferma veritiera la lettura dei massacri del 7 ottobre subito emersa da più parti, ovvero che da allora in poi nulla sarebbe stato più come prima. Israele ha visto materializzarsi i suoi peggiori incubi: una strage terroristica senza precedenti, l’infiltrazione in profondità nel proprio territorio, una massiccia cattura di ostaggi, la scioccante presa di coscienza della propria vulnerabilità, l’impossibilità di ristabilire la deterrenza con operazioni lampo, frutto della superiorità strategica e tecnologica delle proprie forze armate. Di qui la poderosa reazione militare, ma anche le lacerazioni in seno all’opinione pubblica israeliana, dilaniata dal dilemma tra salvare gli ostaggi ed eliminare Hamas da Gaza.

Hamas e i suoi alleati e sodali internazionali, dal canto loro, hanno intravisto la concreta possibilità di sfruttare a proprio favore le spaccature e le contrapposizioni che la comunità internazionale sperimenta da tempo, acuite dalle divisioni nel campo occidentale, come tristemente dimostrano i diversi approcci all’aggressione contro l’Ucraina e al 7 ottobre. È stato così possibile – col prezioso contributo di propaganda e disinformazione – coagulare attorno a una malintesa lettura del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione un coacervo di pulsioni anti-americane e anti-occidentali, una lettura manichea della realtà internazionale come prodotto dell’atavico sfruttamento del Nord nei confronti del Sud del mondo, e la mai sopita negazione del diritto di Israele a esistere come Stato ebraico con i suoi valori e la sua identità, corroborata dalla strumentale sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo.

Sullo sfondo emerge l’infelice coincidenza temporale tra l’esplosione del conflitto in Medio Oriente e le importanti scadenze elettorali negli Stati Uniti e in Europa che condizionano fortemente la postura dei partner occidentali di Israele, a cominciare da Washington, e mostrano un’Europa più divisa e marginale che mai. È prevedibile e auspicabile che gli USA continueranno a bloccare il pieno riconoscimento internazionale dello stato palestinese, non fosse altro perché esso manca di alcuni requisiti fondamentali e soprattutto e perché sancirebbe la vittoria di Hamas e dei suoi metodi, invece di inserirsi in un credibile processo di pace fondato su riconoscimento e sicurezza reciproci tra Israele e Palestina. Tuttavia, Israele dovrà tenere in maggiore considerazione i severi moniti di Washington circa le conseguenze umanitarie di una vasta operazione di terra a Gaza, a meno di non volersi alienare l’appoggio politico, militare e di sicurezza del proprio maggiore alleato, e – peggio ancora – se non vorrà contribuire suo malgrado a indebolire la credibilità e l’autorevolezza di Washington e dell’intera comunità occidentale, di cui Israele fa parte a pieno titolo.