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SETTEOTTOBRE: L’ESPRIT DU TEMPS – Daniele Capezzone

SETTEOTTOBRE
L’ESPRIT DU TEMPS

Tra poco sarà un anno dal pogrom con cui Hamas ha dichiarato guerra a Israele e all’Occidente. L’Associazione Setteottobre, nata in Italia per combattere l’antisemitismo risorgente nelle nostre società, ha deciso di avviare una riflessione su che cosa è cambiato, dopo il 7 ottobre del 2023, nelle nostre vite individuali e nella vita collettiva.


Daniele Capezzone

Molto si è detto e scritto sull’attitudine all’ipocrisia e alla viltà di non pochi politici e commentatori: impegnati a versare qualche lacrima il 7 ottobre e al massimo la mattina dell’8, ma poi – già da quel pomeriggio – velocissimi nel riguadagnare una posizione equidistante, nell’invitare Israele a una reazione “non sproporzionata”, nel deplorare un’eventuale “escalation”. Ah sì? Perché il pogrom del 7 ottobre non era un’”escalation” per antonomasia?

Ma su tutto ciò è perfino inutile disperarsi: questa malafede e queste mediocri furbizie vanno più che altro esposte e smascherate.

Ben più preoccupante è un altro fenomeno a cui assistiamo da un anno, e che riguarda anche molte persone in buona fede.

La sola idea di “ospitare” anche soltanto un terrorista islamico qui in Europa – ovviamente – ci fa orrore, così come non ci piacciono nemmeno il predicatore infiammato e l’integralista pro sharia all’opera nelle periferie delle nostre città. E però contemporaneamente – perfino in contesti insospettabili – monta la diffidenza verso Israele, accompagnata da un’ostilità pervicace contro Benjamin Netanyahu, ormai oggetto di un odio che va totalmente al di là del legittimo dissenso politico, e che mostra profili ossessivi, scatenati, rabbiosi, da parte di larghissimi settori della nostra società (di politica e media è perfino inutile parlare).

È così, l’avrete constatato in tanti anche nella cerchia delle vostre conoscenze: assistiamo a un fenomeno curioso, e si potrebbe perfino parlare di una sorta di schizofrenia, di stravagante scissione.

Da un lato, molti cittadini sono preoccupati e in qualche caso scandalizzati (giustamente) per l’invadenza a casa nostra del radicalismo islamico e delle sue manifestazioni meno rassicuranti: la pretesa di fare indottrinamento perfino verso i bambini più piccoli, le prediche nelle università, l’odiosa pratica della sottomissione delle donne, la convinzione (in ultima analisi è qui il cuore del problema) di far prevalere la legge coranica sulla legislazione ordinaria.

Peccato che però queste stesse preoccupazioni svaniscano, o addirittura si capovolgano di segno, quando ci si sposta a considerare il conflitto in Medio Oriente: in quel caso, molte voci – incredibilmente – mostrano inquietudine non per i comportamenti di Hamas ma per quelli di Israele, come se la minaccia non venisse dalle belve dell’islamismo fondamentalista ma dall’unica democrazia presente in quell’area.

Come si fa a non comprendere che si tratta della medesima partita, della stessa sfida che avviene su due diversi terreni? Là, il tentativo degli integralisti è quello di cancellare l’ultimo avamposto occidentale (quindi: della democrazia e della libertà); qua, l’operazione avviene per un verso attraverso la minaccia violenta (azioni di terrore) e per altro verso attraverso un’avanzata silenziosa che punta sulla stanchezza, sulla pigrizia, sui riflessi lenti delle nostre società, oltre che sul varco stupidamente aperto da chi – a sinistra e purtroppo non solo – considera “islamofobo” chiunque sia anche semplicemente preoccupato per l’integralismo fondamentalista.

Ecco, si tratta di prendere coraggio, di superare qualche timidezza, e di spiegare a voce alta che siamo davanti a due aspetti differenti dello stesso confronto di fondo. Anzi: della stessa battaglia combattuta in due diversi teatri. Peccato che troppi fingano di non comprenderlo, o non lo comprendano affatto.

Eppure le belve islamiste ce l’hanno “spiegato” fin troppo bene: poco dopo il 7 ottobre, ricorderete gli appelli televisivi al “jihad globale”, e cioè a portare morte e terrore anche nelle nostre città. Così come non sfugge a nessuno che una parte significativa della propaganda pro Hamas e anti Israele che inonda i nostri giornali e le nostre televisioni sia probabilmente più “spintanea” che spontanea, cioè pianificata, sollecitata, in qualche caso probabilmente sostenuta e incoraggiata dagli sponsor del fondamentalismo.

Dunque, è il momento della battaglia delle idee. E non è davvero il caso di arretrare o di farci intimidire. A qualche conduttrice televisiva che fa i sorrisini e le smorfiette di disapprovazione su Israele, e che invece legge come se fossero pagine del Vangelo i comunicati dell’ufficio stampa di Hamas, sarà il caso di spiegare che, in caso di vittoria dei fondamentalisti, lei dovrebbe andare in onda indossando il velo. Provocazione greve? No: triste e amarissimo pro memoria sullo stato di segregazione femminile in quei paesi.

A chi – incredibilmente – srotola nei cortei gli striscioni tipo “Queers for Palestine” (omosessuali per la Palestina), occorre spiegare che sarebbe un po’ come se i capretti festeggiassero la Pasqua o i tacchini il Natale. Qualunque persona sana di mente, infatti, sa bene cosa accada alle persone omosessuali in sistemi gestiti da fondamentalisti islamici. Eppure c’è chi fa finta di non capire.

Ecco, se non vogliamo stare sempre sulla difensiva, occorre ribattere con molta durezza ai falsi argomenti di chi è in malafede. E contemporaneamente, abbiamo il dovere – con pazienza e tenacia – di aiutare chi è in buona fede a collegare ciò che a loro pare distante, e cioè la battaglia in Medio Oriente e la sfida esistenziale per la libertà che ci riguarda tutti. Anche qui. Se – prima o poi – non vogliamo sciaguratamente assistere al primato della sharia.


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