SETTEOTTOBRE
L’ESPRIT DU TEMPS
Tra poco sarà un anno dal pogrom con cui Hamas ha dichiarato guerra a Israele e all’Occidente. L’Associazione Setteottobre, nata in Italia per combattere l’antisemitismo risorgente nelle nostre società, ha deciso di avviare una riflessione su che cosa è cambiato, dopo il 7 ottobre del 2023, nelle nostre vite individuali e nella vita collettiva.
Luigi Mattiolo
Presto sarà passato un anno da quel tragico 7 ottobre in cui lo Stato di Israele ha subito l’attacco più sanguinoso e vigliacco della sua storia. L’ho vissuto con un misto di orrore, sgomento e incredulità. Ho condiviso con i tanti amici israeliani l’angoscia di quei momenti, l’incapacità di ammettere che potesse scatenarsi tanta ferocia nei confronti degli Ebrei, che potesse emergere un livello simile di aberrazione da mortificare, umiliare e massacrare dei civili innocenti facendosene vanto di fronte ai propri genitori e che quell’abisso di crudeltà inumana potesse venire perpetrato come uno strumento di lotta da iscrivere nell’epopea del popolo palestinese.
Da allora sono passate giornate interminabili per quanti in Israele piangono i propri cari assassinati e quanti si interrogano sulla sorte dei propri familiari di cui non hanno più avuto notizie. Per mia immeritata fortuna non sono stato direttamente coinvolto e ogni mio sentimento o pensiero su quanto accaduto sconta questa mia privilegiata posizione. Ma ciò non mi impedisce di vivere tempi molto difficili. Dal 7 ottobre in poi, infatti, si è innalzata un’autentica ondata di rifiuto, di autentica ripulsa per le ragioni di Israele. Un Paese assediato da Nord, da Sud, da Est, colpito nei suoi centri vitali da continui attacchi missilistici e terroristici, che vede la sua stessa sopravvivenza insidiata da ogni parte, la sua popolazione terrorizzata, le sue scuole chiuse in vaste regioni del Paese, la sua economia in ginocchio non riesce a mobilitare comprensione e sostegno nelle nostre opinioni pubbliche occidentali. Al contrario, è sfacciatamente posto sul banco degli accusati. Gli si rimprovera di avere avuto una reazione sproporzionata agli attacchi che continua a subire, di non aver porto l’altra guancia, di non essere sceso a patti con quanti ne professano orgogliosamente la distruzione, la cancellazione dalla carta geografica. Si è così rivelato difficilissimo per me e per tanti come me cercare di ristabilire la sequenza degli eventi, la connessione tra cause ed effetti, la distinzione tra Israele e tutti noi e le armate di quanti attaccano Israele per colpire i valori in cui dovremmo credere, la libertà individuale e collettiva, il rispetto della dignità umana, la democrazia. L’identità democratica e liberale di Israele è stata completamente disconosciuta, vittime e carnefici sono stati messi sullo stesso piano, addirittura le più alte istituzioni internazionali mai create nella storia dell’umanità hanno accusato Israele di perseguire il genocidio del popolo palestinese, composto da migliaia di individui che in Israele vivono, lavorano, hanno trovato il loro posto nella società. Un’accolita di terroristi votati alla morte come Hamas, che domina dal 2005 Gaza con pugno di ferro e utilizza i propri fratelli come scudi umani, si è vista riconoscere una funzione salvifica del popolo palestinese, come l’unico autentico ed efficace difensore della legittima aspirazione alla creazione di un proprio Stato. In altri termini, nel nostro mondo, che credevamo evoluto e vaccinato contro il virus della violenza e della sopraffazione, si è ammesso che stupri e assassinii in determinate circostanze possano costituire un utile e quindi giustificabile strumento di lotta politica.
Se la medesima lettura non è stata applicata ad altre lotte di liberazione che pure hanno punteggiato la nostra storia – dal Vietnam all’Europa orientale, tanto per citare alcuni esempi – ci deve essere una ragione. Su questa ragione mi sono interrogato a lungo giungendo alla conclusione che, quando la vittima è un Ebreo, l’inconcepibile diventa accettabile, l’inenarrabile viene assurdamente contestualizzato, circoscritto, privato della sua verità.
Credo sia tutta qui l’essenza distruttiva dell’antisemitismo, un fenomeno che non ho mai creduto fosse sepolto dalla storia, ma di cui ho spesso rinvenuto tracce evidenti negli ambienti e negli interlocutori più inaspettati, ma che ormai è diventato un manifesto attorno al quale senza pudore – a parte qualche ipocrita dissimulazione con il cosiddetto antisionismo – si raccoglie un coacervo di nemici della civiltà occidentale come l’abbiamo sinora intesa.
Dal 7 ottobre nulla è più lo stesso in Israele e per Israele. Il Paese non è mai stato così in pericolo, così isolato e condannato. Ora davvero la sua sopravvivenza è messa a repentaglio. La speranza, che sono certo non è illusoria, è che il popolo israeliano sappia superare la prova, anche se questo implicherà sacrifici e scelte amare; che sappia ritrovare la sua coesione; che sappia condividere a ogni livello le priorità del momento, che per tanti Israeliani si incentrano sul ritorno dei rapiti. Viceversa, è forse illusoria la speranza che nel nostro mondo occidentale, prospero e lontano dalla linea del fuoco, si riconoscano le ragioni profonde, i valori fondanti che ci accomunano a Israele e mai ai suoi nemici, che andranno chiamati a rispondere dei loro crimini innanzitutto da parte dei Palestinesi, il cui destino è chiaramente irrilevante per la gran parte di quanti si professano paladini della loro causa.
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