ISRAELE: DIECI BUGIE PER DIECI GIORNI #7
Nicoletta Tiliacos
Dopo il 7 ottobre 2023, di fronte all’ondata di antisemitismo che percorre le società occidentali e contagia le giovani generazioni, è sempre più necessario smontare le menzogne sullo Stato ebraico, tese a negarne lo stesso diritto all’esistenza. Nel pamphlet intitolato “Le dieci bugie su Israele”, la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein analizza i più deleteri luoghi comuni dell’odio antiebraico e antisraeliano, confutandoli uno per uno e smascherando le manipolazioni della realtà su cui si fondano.
Setteottobre ringrazia l’autrice, che ha accettato di mettere a disposizione del nostro sito questo suo prezioso lavoro, e la Federazione delle Associazioni Italia-Israele, che nell’aprile 2024 ne ha pubblicato e diffuso gratuitamente la versione cartacea.
È possibile scaricare gratuitamente il libro di Fiamma Nirenstein nella versione completa sul sito della Federazione delle Associazioni Italia Israele.
Bugia n. 7: Israele Stato razzista, di apartheid, genocida
Fiamma Nirenstein
Nel 2001, a Durban, in Sudafrica, la “Conferenza Mondiale dell’ONU contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza” ha inaugurato una nuova fase di antisemitismo, sotto l’egida astuta della lotta a quelle che sono giustamente annoverate tra le più grandi e inaccettabili violazioni dei diritti umani. Si trasformò di fatto in una conferenza razzista, discriminatoria, xenofoba e intollerante contro Israele. Dall’idea di “Israele Paese di apartheid” , della quale fin da allora e non a caso è paladino il Sudafrica, ha preso corpo e slancio la leggenda nera su cui è cresciuta l’altra idea paradossale di Israele come Stato “genocida”. Immaginare che lo Stato degli ebrei sia razzista è infatti proprio la cosa più odiosa e ripugnante che si possa immaginare. Tutti sanno cos’era l’apartheid sudafricano: un sistema governato dalla nascita alla morte dei cittadini da leggi che determinavano la vita di ciascuno sulla base del colore della pelle. Niente di tutto questo accade in Israele, né è mai accaduto. Israele è una società multirazziale e dai moltissimi colori anche all’interno del popolo ebraico, e la popolazione araba partecipa attivamente all’esercizio dei diritti politici e non soffre preclusioni rispetto all’educazione, al culto, al lavoro. Gli arabi israeliani godono di totale eguaglianza, eleggono i loro rappresentanti alla Knesset, giudici arabi israeliani servono nella Corte Suprema, sono capi di grandi dipartimenti ospedalieri, e ufficiali di prima linea nell’esercito e nella polizia. A differenza degli Stati arabi dove vige la religione di Stato, Israele considera l’ebraismo, l’islam e il cristianesimo come religioni ufficiali e garantisce totale eguaglianza. L’incitamento al razzismo in Israele è un crimine punito per legge.
L’idea lanciata da Durban in poi è quella di accusare Israele dei crimini più ripugnanti al mondo contemporaneo, di denunciarlo come Stato canaglia da boicottare e da cancellare, come è appunto avvenuto al Sudafrica dell’apartheid. Sulla scorta di questa accusa, vengono ogni anno organizzate negli atenei di tutto il mondo le “apartheid week” che ormai si svolgono anche in alcune Università italiane. Su questa accusa si è costruito tutto il vasto movimento del BDS (Boicotaggio Disinvestimento e Sanzioni) che vuole ripetere per Israele la politica di delegittimazione attuata a suo tempo per il Sudafrica. Il BDS è un movimento estremista e violento che mira alla distruzione di Israele, ed è di fatto sostenuto anche da Hamas e dalla Fratellanza Musulmana. È oltretutto un movimento ipocrita perché, mentre boicotta sistematicamente accademici, sportivi, studiosi, rappresentanti della società, si guarda bene dall’escludere dal mercato i tanti prodotti indispensabili della scienza e dell’industria israeliana nei settori medici e tecnologici.
Nel 1975, all’ONU passò la famosa quanto misteriosa risoluzione “Sionismo uguale a razzismo”. Ma l’unico nesso che gli ebrei hanno con il razzismo e l’apartheid è passivo, è quello che hanno subito: l’uso dei ghetti ai fini della loro segregazione seguiva criteri razziali, così come il tentativo della loro eliminazione fisica sistematica. In Israele non c’è traccia di razzismo né tantomeno di apartheid, l’accusa è troppo stupida per essere presa seriamente; in Israele esiste solo quel tasso di razzismo che purtroppo alligna in qualsiasi società democratica e viene monitorato e combattuto per legge. Israele non distingue nella sua legislazione fra razze, etnie, religioni, salvo che per l’ammissione immediata alla cittadinanza israeliana, riservata solo agli ebrei, come accade per moltissimi paesi, tra i quali l’Italia. Israele non impedisce a nessuno di praticare la propria religione e i propri costumi ed è anzi l’unico paese del Medio Oriente dove ciò accade. Basta farsi un giro alla Knesset o negli ospedali. I centri commerciali, con i loro negozi e spazi ricreativi, sono un incrocio frenetico di gente di ogni etnia o credo religioso, ebrei cristiani e musulmani, tutti insieme. Ai giochini a gettone le mamme fanno la fila coi bambini, sia che abbiano il velo islamico che la parrucca delle donne ebree molto religiose. Persino adesso, dopo il 7 di ottobre, gli arabi israeliani conservano intatto, com’è giusto, il loro ruolo nella società.
È certo vero che sono molte le misure per cui, soprattutto nei Territori e agli ingressi oltre la Linea Verde, la parte araba della popolazione subisce code e interrogatori, ma come sempre il problema della sicurezza è sovrastante ed è per la salvezza di tutti i cittadini di Israele, arabi compresi, perché anche tra loro non ne sono morti pochi, negli attacchi terroristici jihadisti. E chi può negare che da Hebron, da Betlemme, da Ramallah siano entrati a migliaia terroristi armati che hanno compiuto stragi? È vero, certo, che Gaza ha le frontiere chiuse, ma basta pensare al programma genocida antisemita e antioccidentale di Hamas, sancito dalla sua stessa Carta Costitutiva, e a quanto sangue ha sparso dentro e fuori la Linea Verde, per capire che il razzismo non c’entra proprio niente con le misure di difesa che Israele è costretto ad applicare.
La delegittimazione di Israele è diventata una grande industria, purtroppo la maggiore industria del mondo palestinese. Gli israeliani vengono continuamente disegnati, rappresentati secondo i soliti vecchi stereotipi, con in più le armi: il naso, più il mitra; i soldi, più il sangue dei bambini sulle labbra. Così fu rappresentato Ariel Sharon in una gara di vignette a Londra: nudo, in mano un grappolo di bambini che pendevano dalla sua bocca insanguinata, mentre li sgranocchia. Se gli ebrei sono così cattivi e razzisti, è davvero molto difficile capire come mai un sondaggio riportato dal Jerusalem Post del 2014 dichiarava che il 72 per cento degli arabi israeliani vogliono vivere sotto giurisdizione israeliana e non sotto quella palestinese. In tema di diritti praticati e riconosciuti da Israele, basti pensare al sistema di riconoscimento dei diritti LGBTQ, che dà buoni motivi a tutti gli omosessuali del Medio Oriente, compresi centinaia di palestinesi, per fuggire in Israele quando sono perseguitati, come lo sono ovunque nel mondo islamico, a volte fino alla pena di morte. Un caso tra i tanti è quello di Payam Feili, un poeta gay iraniano fuggito nel 2016 in Israele, dove ha ottenuto asilo politico. Eppure, anche questo, per i nemici di Israele, diventa sospetto e foriero di accuse, come se l’impegno di Israele nel rispettare e proteggere i diritti degli omosessuali fosse solo propaganda per coprire la violazione di altri diritti umani (il cosiddetto “pinkwashing”).
La verità è che Israele è un paese parossisticamente libero in uno stato di guerra, fenomeno più unico che raro. La stampa israeliana, come la tv e i media in generale sono estremamente attivi nel proporre senza fine opinioni contrapposte e gridate; è addirittura caricaturale il modo in cui le opinioni si sfidano e si fronteggiano e la classe politica viene messa continuamente in questione. L’atteggiamento verso cristiani e musulmani è definito per legge come paritario, le tre religioni sono considerate alla pari anche se le altre due sono minoritarie, e in Israele la libertà di religione per tutti è garantita sin dalla dichiarazione dei diritti del 1948. Al contrario, sotto la dominazione giordana di Gerusalemme (1949-1967) gli ebrei non potevano nemmeno recarsi al Muro del Pianto, e sotto gli Ottomani potevano pregare in un piccolo spazio di fronte a quell’unico luogo santo per l’ebraismo, mentre adesso tutti possono accedere ai loro luoghi sacri, dal Santo Sepolcro alla Spianata delle Moschee. Anche l’enorme flusso turistico è regolato secondo le esigenze e le regole (autoimposte) delle varie religioni, tanto che non viene contestato che i musulmani diano diritto di accesso alle Moschee solo in certi giorni e determinati orari, in base alla volontà del Waqf. Le limitazioni di accesso alle Moschee da parte israeliana sono dovute, e solo in casi particolari, a gravi minacce alla sicurezza e non a motivi religiosi. Siamo molto lontano dai divieti musulmani a pregare secondo la propria fede nei luoghi da loro controllati e, se si compara per esempio l’atteggiamento israeliano con quello di qualsiasi Stato islamico, si può notare che il livello di apertura democratica verso la libertà di culto è incomparabile ai sauditi o agli stessi palestinesi.
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