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ISRAELE: DIECI BUGIE PER DIECI GIORNI #10

ISRAELE: DIECI BUGIE PER DIECI GIORNI #10

Nicoletta Tiliacos

Dopo il 7 ottobre 2023, di fronte all’ondata di antisemitismo che percorre le società occidentali e contagia le giovani generazioni, è sempre più necessario smontare le menzogne sullo Stato ebraico, tese a negarne lo stesso diritto all’esistenza. Nel pamphlet intitolato “Le dieci bugie su Israele”, la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein analizza i più deleteri luoghi comuni dell’odio antiebraico e antisraeliano, confutandoli uno per uno e smascherando le manipolazioni della realtà su cui si fondano. 
Setteottobre ringrazia l’autrice, che ha accettato di mettere a disposizione del nostro sito questo suo prezioso lavoro, e la Federazione delle Associazioni Italia-Israele, che nell’aprile 2024 ne ha pubblicato e diffuso gratuitamente la versione cartacea.

È possibile scaricare gratuitamente il libro di Fiamma Nirenstein nella versione completa sul sito della Federazione delle Associazioni Italia Israele.

Bugia n. 10: Il terrorismo palestinese è diverso da quello che colpisce il resto del mondo

Fiamma Nirenstein

C’è chi ama immaginare che il terrorismo palestinese sia una guerra di liberazione compiuta da combattenti per la libertà, da “resistenti”. Innanzitutto, dato che, a dispetto dell’opinione corrente, il terrorismo palestinese è basato non sulla richiesta di uno Stato palestinese ma sull’ambizione di distruggere lo Stato d’Israele (estendendo l’odio antisemita a tutti gli ebrei del mondo, a loro volta attaccati, uccisi, rapiti, feriti dal terrorismo palestinese), esso corrisponde precisamente alla definizione di terrorismo come odio etnico o religioso, diretto verso i civili innocenti attraverso mezzi violenti e omicidi. Il terrorismo palestinese ha letteralmente creato il terrorismo mondiale, finanziato al suo inizio e poi nel corso del tempo gonfiato da alleanze e dal sostegno in tutto il mondo musulmano estremo. Le sue alleanze non si attestano sulla sua appartenenza originaria alla parte sunnita di quel mondo, guidato dalla Fratellanza Musulmana, ma sconfinano in un rapporto mortale con la Shia dell’Iran e degli Hezbollah. I primi a schierarsi con le armi a fianco delle atrocità terroriste di Hamas del 7 di ottobre sono stati i maggiori proxy dell’Iran, gli Hezbollah sciiti libanesi, e con loro gli Houthi, sempre sciiti, del lontano Yemen. È un’alleanza che conosce solo la crudeltà, la morte e la violenza. Ogni principio umano e civile è di fatto negato in maniera così palese da farci domandare come è possibile che il movimento internazionale che dichiara di lottare per i diritti umani non si renda conto dell’odio omicida, fascista, contro le donne, contro gli omosessuali, anti dissidenti, antioccidentale e antisemita che caratterizza la stessa esistenza di quell’alleanza.

Il terrorismo palestinese è il padre e la madre di tutti i terrorismi, di quello dell’Isis come di quello di Al Qaeda. Il suo intento conclamato è di piegare il mondo ai propri scopi, mentre distrugge lo Stato d’Israele e il popolo ebraico. Dalle Brigate Rosse alla Rote Armee Fraktion (la Banda Baader-Meinhof), tutte le peggiori bande terroristiche del mondo sono state implicate in commerci, che vanno ben oltre il Medio Oriente, con gli scopi assassini di Arafat, dei suoi seguaci e dei suoi successori, fino ai giorni nostri. È Arafat ad aver fatto scuola nei sequestri aerei, nelle esplosioni letali nei luoghi della vita civile, dalle scuole agli aeroporti, ai ristoranti, fino alle sinagoghe e alle chiese attaccate dai jihadisti. È Arafat il grande docente nel sequestro e nella mattanza di bambini, atleti, vecchi e donne, e Israele è forse il Paese che più ha sofferto per quella piaga che oggi tutto il mondo è costretto a conoscere. Si calcola, grosso modo e sempre a sconto, che dal settembre del 1993, violando gli accordi di Oslo, fino al settembre del 2000, i palestinesi abbiano fatto trecento morti in azioni terroristiche, per poi farne più di 1.500 durante i quattro anni di Intifada, cui se ne aggiungono altre centinaia, fino ai 1.400 del 7 ottobre 2023. Ma già in questo stesso anno, prima che il terrorismo arrivasse principalmente da Gaza, le città israeliane sono state insanguinate da un’ondata di terrore nella West Bank, costata 35 morti e centinaia di feriti. Fino al 2015, Israele ha contato 3.773 morti per mano del terrorismo, orrori contro i civili che avrebbero messo in ginocchio qualsiasi Paese europeo. In Israele, basta sedersi a un bar o prendere un autobus o andare al supermarket per essere nel mirino: i terroristi palestinesi colpiscono per causare sofferenza alle famiglie, alle madri, ai bambini.

Eppure, quante volte abbiamo sentito l’accusa: “Gli israeliani prendono di mira i bambini”? Una cosa così pazzesca, per chiunque conosca la mentalità israeliana, da non meritare risposta. Occorre tuttavia scrivere qualche parola, perché ormai è un’accusa che ha preso piede: a parte le falsità che si sono scritte sull’argomento, come la notizia, poi dimostratasi errata, sull’uccisione di tre bambini di Gaza sulla spiaggia nel corso della guerra del 2014, è purtroppo vero che i bambini restano sovente vittime dello scontro israelo- palestinese. Gli israeliani a volte sono costretti, da quella che si chiama guerra asimmetrica, a colpire obiettivi di comune uso civile in quanto vengono utilizzati come rampe di lancio dei missili contro la popolazione civile israeliana. Qui entra in gioco la cinica e programmata scelta di far uso dei bambini, e dei civili in generale, come scudi umani. Tutt’altra cosa è la strage di bambini che il terrorismo palestinese compie con la precisa intenzione di colpire proprio loro. Aveva pochi mesi la bambina uccisa con un colpo di fucile alla testa da un cecchino (Shalhevet Pass, 2001), intere famiglie sono state sterminate con i neonati (Famiglia Fogel, Itamar, 2012), genitori sono stati uccisi sotto gli occhi dei figli (Michael Marc, 2016). Bambini scannati (Hallel Ariel, 2016), liceali rapiti e ammazzati come cani (Eyal, Gilad, Naftali, 2014), un ragazzino adescato su internet da una giovane palestinese fino a Ramallah e poi fatto a pezzi in un garage (Ofir Rahum, 2001; l’autrice dell’agguato mortale, Mona Awana, fu rilasciata nel 2011 nello scambio di 1.027 terroristi per liberare il soldato Gilad Shalit, rapito nel 2006 da Hamas): sono solo alcuni esempi dell’atroce, costante azione di un terrorismo comparabile per crudeltà solo a quello di Al Qaeda e dell’Isis, specie dopo le atrocità mirate, specifiche, programmate del 7 ottobre.

È oltraggioso e molto preoccupante che, come fece l’allora segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, durante la Conferenza sul clima di Parigi, nel 2015, si chieda un minuto di silenzio per tutte le vittime del terrorismo nel mondo e si elenchino tutti i Paesi colpiti da questa piaga omettendo Israele, come se uccidere gli ebrei fosse una cosa permessa dall’opinione pubblica internazionale. È una pura forma di disprezzo per i morti ebrei, come del resto è chiaro fin dai tempi della Seconda Intifada. L’aberrante lectio comune è che si tratti di parte della guerra di liberazione del popolo palestinese.

La verità è che il terrorismo palestinese esiste da molto prima di quella che all’Unione Europea e all’ONU piace definire come “causa” del terrorismo attuale, cioè la frustrazione per la crescita di insediamenti nei Territori. Israele in sostanza viene ritenuto responsabile degli orrori perpetrati contro i suoi stessi cittadini da qualche riprovevole ma marginale estremista, mentre il popolo palestinese sarebbe pronto al compromesso. Certo, è vero che esiste fra i palestinesi anche chi desidera la pace, ma si tratta di un sentimento che non è mai stato espresso liberamente. In realtà il terrorismo è una, se non “la” scelta basilare della guerra palestinese contro Israele. Lo è esplicitamente, per quel che riguarda Hamas, e implicitamente, per quanto riguarda Fatah.

La verità è che Arafat finanziò il terrorismo nazionale e internazionale con le cospicue elargizioni dei contribuenti occidentali, versate nelle casse delle organizzazioni palestinesi attraverso numerosi meccanismi, sia dell’UE sia dell’ONU. La stessa educazione delle giovani generazioni palestinesi guarda alle grandi operazioni terroristiche, molto rilevanti anche prima di Gaza: il massacro dei bambini della scuola di Maalot (1974, 25 ostaggi uccisi); il massacro degli undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972; il dirottamento a Entebbe, nel 1976, del volo Air France con 248 passeggeri a bordo, che poi furono liberati dagli israeliani con un’operazione in cui perse la vita il comandante Yoni Netanyahu; gli attacchi a Fiumicino del 1973 e del 1985, riportati alla mente dall’attentato all’aeroporto di Bruxelles, nel 2016. L’idea che il terrorismo può essere lo strumento principale per catturare l’attenzione, e quindi polarizzare la paura e il disordine a proprio vantaggio, è né più né meno che una creazione di Arafat, poi sviluppata in varie forme, fino agli attentati alle Torri Gemelle e poi a Madrid, a Londra, a Parigi.

L’attacco contro gli ebrei è sempre centrale e rivendicato, ma non a causa di richieste territoriali, bensì in nome di un rifiuto a forte caratterizzazione ideologica e religiosa, che considera una presenza ebraica sulla Ummah islamica una ferita da cancellare. Si può dire che l’impostazione genocida dell’attuale terrorismo palestinese è, non a caso, connessa con i programmi di sterminio di Hitler. Haj Amin al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme e leader palestinese degli anni Trenta e Quaranta, fu amico e sodale di Hitler e il primo fra i palestinesi a considerare come un fine l’espulsione degli ebrei tramite la loro eliminazione fisica, che non mancò di caldeggiare presso il capo del nazismo. Questo atteggiamento ha radici molto profonde nell’Islam estremo: lo Statuto di Hamas (1988) prescrive di uccidere gli ebrei a uno a uno: «L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo» (art. 7).

Queste parole sono ripetute spesso anche nell’ambito di Fatah. Lo stesso Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ha detto il 16 settembre 2015, in un discorso alla tv: «Noi diciamo benvenuta a ogni goccia di sangue versato per Gerusalemme. Sangue puro, sangue pulito, sangue che sale fino ad Allah; con l’aiuto di Allah ogni martire verrà ricompensato in paradiso e ogni ferito avrà la sua ricompensa». Nella stessa occasione ha aggiunto: «Gli ebrei sono sporcizia, profanano e contaminano Gerusalemme». Di fatto, l’Autonomia palestinese una ricompensa ai propri martiri la fornisce: versa più del dieci per cento del suo budget annuale di tre miliardi e mezzo di dollari nelle tasche dei detenuti palestinesi o delle famiglie dei terroristi suicidi o uccisi. Sono cifre più elevate di quelle di un salario normale, da circa 400 a 3500 dollari al mese. Ovviamente, quanto è più lunga la detenzione, ovvero più è grave il crimine, tanto aumenta nel tempo la spesa. Quando il terrorista esce di prigione, ha diritto a un lavoro garantito e riveste un ruolo socialmente molto invidiabile, tale da suscitare l’emulazione dei giovani.

L’odio per gli ebrei si può definire metafisico, ispirato in gran parte al fine religioso della difesa della Moschea di Al-Aqsa, disegnata nella fantasia e nei mass media come in costante pericolo. Il messaggio dei social network e dei media è che vale la pena di diventare shahid, martiri, per difendere la Moschea. La venerazione verso gli shahid nella società palestinese è un forte motivo di emulazione, il motivo per cui, al di là delle grandi operazioni, tanti ragazzi con un coltello in mano, i cosiddetti “lupi solitari”, cercano una vittima israeliana e, com’è successo spesso, la propria stessa morte. Tutto ciò è motivo di glorificazione in tutta la società palestinese. Oggi l’emulazione della spaventosa impresa di Hamas rischia di far compiere un ulteriore passo avanti alla crudeltà e alla pericolosità del terrorismo palestinese.


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